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Confronti e approfondimenti
autore
Alessandro Esposito

«Se voi perdonerete agli uomini le loro cadute, il Padre vostro celeste perdonerà anche voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre cadute» (Mt, 6,14-15).

Perdono è parola come poche altre inflazionata: non è raro, quando se ne parla, essere costretti ad ascoltare un buon numero di ovvietà. È un qualcosa che succede con quasi tutti gli argomenti che possiedono una certa delicatezza e complessità: li si banalizza, svuotandoli della loro profondità. Certo, meditare sul perdono non è semplice: cerchiamo allora di accostarlo insieme, di incontrarne il senso nelle nostre vite, quelle stesse a cui le parole dell’evangelo intendono costantemente rivolgersi.

Il testo da cui vorrei prendere le mosse si trova nel vangelo secondo Matteo: scorrendone le pagine, si scopre che il nostro passo segue immediatamente, in maniera assai significativa, la preghiera del Padre Nostro che Gesù insegna alle sue e ai suoi; appena terminata la preghiera, l’evangelista mette in bocca a Gesù queste parole. Quasi sicuramente Matteo, quando scrive, ha in mente la situazione della sua comunità, che è poi la situazione di tutte le comunità di ogni tempo, perché chiama in causa la nostra umanità che, come sappiamo, non è molto incline a perdonare. Perdonare è difficile: in un modo un po’ paradossale, potremmo dire che si tratta di un qualcosa di profondamente umano e, insieme, assai poco “naturale”. Non è spontaneo, il perdono: va esercitato, richiesto, praticato. Non nasce del tutto da sé: infatti, in un certo qual modo, Gesù lo comanda o, quantomeno, lo raccomanda.

Riguardo a questo comandamento, estremamente simile a quello dell’amore, vorrei approfondire oggi, insieme con voi, cinque brevi aspetti.

1. Il primo di essi lo trovo estremamente significativo: con mia grande sorpresa, ho scoperto che in tutta la Bibbia si parla due volte soltanto di “perdono”, una volta nei salmi e un’altra volta nel libro del profeta Isaia. In tutto il Secondo Testamento, vangeli inclusi, addirittura non se ne parla mai. Si parla, invece, a più riprese, di perdonare: in parole povere, si usa quasi esclusivamente il verbo e praticamente mai il sostantivo. E questo per un motivo in verità assai semplice, del tutto chiaro agli antichi e completamente dimenticato da noi post-moderni: ovverosia, perdonare è un gesto, un’azione, non un concetto. C’è perdono quando si perdona: punto. Per poter parlare di perdono, bisogna saper perdonare: tutto il resto non è che un vano sproloquiare. È il gesto compiuto che dà senso alla parola, la quale, altrimenti, rimane vuota, insignificante. “Se vuoi imparare il perdono” – ci dice Gesù – “impara a perdonare”.

2. Il secondo aspetto estremamente affascinante riguarda il significato letterale del verbo perdonare in greco, lingua nella quale sono stati scritti i vangeli. Perdonare, in greco, si dice αφίημι (afìemi) che, letteralmente, può essere ricondotto a due significati principali.

Il primo è legato al gesto del condonare un debito: quando si accorda il perdono, potremmo dire, si “pareggiano i conti”; nessuno deve più niente a nessuno.
Si tratta del senso più volte esplicitato da Gesù attraverso le parabole che, spesso, presentano Dio come Colui che cancella il debito. In sostanza, con Dio, secondo Gesù, non si è mai in debito: ma questo avviene soltanto perché è Lui a condonarlo, a far finta che non ci sia. Senza troppe speculazioni complesse, questo è il senso più semplice, immediato e profondo di ciò che chiamiamo “grazia”.

Il secondo significato del verbo αφίημι (afìemi) è, se possibile, ancora più pregnante, perché riguarda lo “sciogliere le catene”, il “rimettere in libertà”. Chi perdona libera, slega, rimette in cammino. Si tratta del gesto più grande che Dio ha compiuto nei confronti del suo popolo e che viene narrato nel libro dell’Esodo: gesto che la tradizione ebraica rinnova ogni anno nella festività più importante, Pasqua, in ebraico Pesah, che vuol dire “passaggio”. Passaggio, appunto, dalla schiavitù alla libertà: questo è il perdono, gesto che ti restituisce a te stesso, alla tua integrità. Azione che ti scioglie dai quei lacci stretti che ciascuna e ciascuno, soltanto, è capace di imporre a se stesso, a se stessa. Il perdono è messa a nudo della menzogna dell’autosufficienza, quella in cui la nostra società del benessere intende relegarci, convincendoci del fatto che si tratti di una vera e propria conquista, di un qualcosa di sommamente desiderabile. Il perdono ci mette di fronte all’altro, all’altra, insegnandoci, al contempo, a liberarci del nostro peggior tiranno: noi stesse, noi stessi.

3. Qui risiede il terzo aspetto che caratterizza il perdono: ovverosia, il fatto che, come ogni gesto, esso chiama necessariamente in causa la relazione. C’è perdono, infatti, soltanto se vi sono coinvolte due persone: è gesto di reciprocità, il perdono. Va accordato e ricevuto. Ci si riflette poco, solitamente: ma, in verità, accade spesso che il perdono sia difficile da ricevere, non soltanto da concedere. Talvolta lo dimentichiamo, ma il perdono è, per tutte e tutti, una necessità: abbiamo bisogno di perdono, di divenire capaci di accoglierlo. Del resto, ce lo ricorda la parola stessa: perdono è dono. E, come tale, bisogna anche imparare a riceverlo. Dall’altro, dall’altra: ma, e questo nel cammino di fede è evidente, anche da Dio. Abbiamo bisogno del Suo perdono, di quel gesto che ci libera e attraverso cui facciamo esperienza dell’insperato, quando veniamo restituiti a noi stessi, a noi stesse. L’invito che Gesù ci rivolge è quello di rimanere aperti al perdono, di lasciare aperte le porte alla sua azione rigenerante.

4. Però qui viene l’aspetto più curioso, quello che molti teologi e uomini di dottrina accettano con più fatica. È senz’altro vero: il perdono bisogna imparare a riceverlo e, pertanto, anche a richiederlo. Gli inviti provenienti dai pulpiti, in tal senso, sono numerosi e costanti. Gesù, però, ribalta i termini della questione, con buona pace di tutti coloro che hanno di Dio una visione certa e conforme ai canoni della retta tradizione protestante, secondo la quale, immancabilmente, Dio ha sempre “la precedenza”.

Qui invece, in maniera piuttosto chiara, la precedenza ce l’hanno le donne e gli uomini. Il perdono va richiesto e ricevuto: ma, prima ancora, va concesso. Vuoi essere perdonato? Beh, allora perdona tu per primo. Il perdono che Dio ci accorderà è semplice conseguenza di quello che noi, per primi, avremo saputo accordare. Il nostro passo di oggi, a tale rispetto, è chiarissimo. Come spesso accade nei racconti evangelici, il richiamo costante è ai rapporti inter-umani, alla pratica di atteggiamenti che riflettano la volontà di un Dio interessato, unicamente, al fatto che noi diventiamo ciò che diciamo di essere e non siamo mai pienamente: umani. “Essere umani” significa imparare a diventarlo, realizzare compiutamente quello che è il progetto di Dio su di noi: essere fatti “a Sua immagine e somiglianza”, donne e uomini dal volto divino, che è volto umano.

5. E qui risiede l’ultimo aspetto: essere umani è condizione di consapevole e gioiosa imperfezione. Il perdono è liberante perché non ci vuole perfette e perfetti, anzi: è soltanto assumendo pienamente la nostra umanità e quella altrui che possiamo ricevere e accordare il perdono. La nostra esperienza, i nostri cammini, sono costellati da cadute: questa è la traduzione letterale del termine greco παραπτόματα (paraptòmata) che le nostre traduzioni, normalmente, rendono con la parola “colpe”. Dio, invece, non ragiona in termini di “colpe”, ma di cadute: inevitabili, come per i bambini che muovono i primi passi e che ogni padre ed ogni madre rialzano con premura. Il perdono risolleva, rimette in piedi.

Cadere non è un’azione imperdonabile: è ciò che, al contrario, suscita la misericordia di Dio, che ci si fa accanto e ci rialza. Ma perché questo avvenga, Dio ci chiede di fare lo stesso: “Risolleva chi giace per terra, in attesa che tu gli tenda la mano. Così soltanto anch’Io mi dimostrerò indulgente quando a chiedere sostegno e vicinanza sarai tu”. Non c’è caduta dalla quale non ci si possa rialzare. Ma a rimettere in piedi è la comprensività che si sostituisce al giudizio, il perdono che rifiuta la condanna. Commuoversi di fronte all’altra, all’altro, riconoscere in lei, in lui, la nostra stessa fragilità: questo soltanto, in definitiva, ci rende più umani. E, per questo stesso, più vicine e vicini al Dio di Gesù, Padre e Madre dal cuore umano, capace sempre, come lo siamo noi ogni volta che rimaniamo aperti al perdono, di muoversi a premura e tenerezza perché capace, prima ancora, di commuoversi.