Fin dai tempi antichi, tutta la speculazione indiana ruota attorno ad un principio, la salvezza o liberazione dell’uomo, intesa come superamento dell’esistenza e unione con il principio eterno ed immutabile, brahman. Fra le vie che conducono alla salvezza vi è il sentiero della bhakti’, il cui significato viene approfondito da Tiziana Lorenzetti come amore reciproco, rappresentato nell’arte attraverso il mito della coppia Krishna – Radha. La spiritualità indiana della bhakti’ ebbe, a partire dal VI secolo, una enorme importanza nel risvegliare una speciale devozione nei confronti del divino, contribuendo a ciò anche l’espressione artistica, intesa come pittura scultura o architettura. Ancora oggi, le immagini vengono realizzate secondo precisi canoni iconometrici perché le divinità rappresentate possano poi, attraverso rituali prescritti dai testi sacri, abitare nell’icona ed essere quindi esposte alla venerazione pubblica per destare nel devoto la coscienza di essere costituito della sostanza divina e per distruggere invece l’illusione della dualità che avvolge il mondo fenomenico. La devozione dell’immagine, fatta di contatto visivo, offerte, preghiere e canti conferisce all’icona quel particolare rispetto che si deve a una manifestazione vivente del sacro.

LorenzettiTiziana Lorenzetti

Che Fede è mai questa? Si chiesero i primi missionari cristiani che già all’inizio del 1300 si avventurarono nella remota India. Li avevano turbati il caos delle sette, gli strani rituali e le sottigliezze della metafisica, che sembrava dissolvere il mondo e i valori morali in una luce incolore, inafferrabile al loro spirito educato alla chiara concretezza del pensiero classico1.
In effetti, molti credi fiorivano in India, alcuni noti, come l’Islam, altri sconosciuti e, all’apparenza, incomprensibili. In quel magmatico mondo religioso-filosofico, tuttavia, c’era un fattore di unità che, fin da tempi molto antichi, aveva accompagnato tutta la speculazione indiana, e non solo induista2. Salvo rare correnti, infatti, essa non è solo una teoria, pur intessuta di solide architetture logiche; è piuttosto una terapia, come aveva già intuito l’orientalista Giuseppe Tucci. Nel senso che ogni dottrina, pur ruotando intorno all’antico mistero del rapporto fra l’uomo, l’universo e il Principio di tutte le cose, ha un fine soteriologico. In altre parole, prepara il terreno affinchè l’uomo, conoscendo, si salvi3. E per ‘Salvezza’ (o Liberazione) si intende il superamento dell’esistenza, o delle esistenze4, sempre materiate di dolore e impermanenza, e il ritorno al Principio eterno e immutabile. Nell’Induismo, questo Principio si identifica con il brahman, la ‘sostanza universale’, sostrato di ogni forma esistente, umanamente indefinibile.
Dal brahman viene emanato (non creato) l’intero universo che si attua per gradi, attraverso momenti e modi diversi, simboleggiati da una enorme varietà di divinità, della tradizione culta e popolare, che hanno altrettanti variati nomi e aspetti. Esse, al contrario del brahman, che non può essere venerato ma solo percepito e realizzato interiormente, sono oggetto di grande devozione popolare. Un sentimento che si andò via via rafforzando nel tempo, fino a culminare, nel VI secolo circa, in un vero e proprio movimento devozionale, il cosiddetto ‘movimento della bhakti’, che ha segnato e segna ancora oggi la vita religiosa in India.

La devozione in India e il ‘movimento della bhakti

Se, nell’antica tradizione Vedico-brahmanica, che ha dominato gran parte dell’India nord-occidentale fin dal secondo millennio a.C., cercassimo tracce di devozione verso il divino, troveremmo ben poco. Questa cultura, infatti, si basava per lo più su un complesso ritualismo, incentrato sull’atto di culto per eccellenza, il sacrificio, dove somma importanza assumeva l’esatta pronuncia delle formule rituali, recitate da un clero specializzato, i brahmini. Poco spazio, dunque, era lasciato all’afflato emotivo. Solo molto più tardi, nella mistica delle Upanishad 5 e nella Bhagavad-Gita, il centro ideale del grande poema del Mahabharata, troviamo le prime testimonianze di un approccio devozionale al divino che, comunque, si diffuse su larga scala solamente a partire dal VI secolo circa, sull’onda di una corrente di intenso fermento spirituale che attraversò tutta l’India6.

Si trattò di un vero e proprio movimento, sebbene non unitario, noto come ‘movimento della bhakti’ (termine generalmente tradotto con ‘devozione’), che produsse cambiamenti epocali nella storia del pensiero indiano tanto che il ‘sentiero della bhakti’ fu annoverato fra le vie che conducono alla salvezza7.
Il termine bhakti, tuttavia, non indica solo ‘devozione’ verso una divinità; nei secoli, il suo significato si amplia fino a comprendere anche i concetti di rispetto, amore e, secondo alcune correnti, anche di desiderio sessuale.8 Fu specialmente la bhakti vishnuita ad elaborare una mistica erotica fra il dio prescelto — in questo caso Krishna, un’incarnazione di Vishnu — e il devoto. Un amore reciproco, che viene spesso rappresentato attraverso il mito della coppia Krishna-Radha (Fig. 1), la pastorella amante del dio, simbolo dell’anima del devoto, identificata con il genere femminile9.

Krishna
Fig. 1. Krishna con le pastorelle. Pittura Raja Mahal Palace, Orcha, Madhya Pradesh.
© Tiziana Lorenzetti

Un’identità ben sottolineata anche da alcuni mistici Cristiani. Infatti, come non pensare a San Giovanni della Croce e al suo Cantico Spirituale dove i tormenti della sposa che anela il suo sposo non sono altro che una metafora dell’affannosa ricerca dell’anima per Gesù?
“Dove ti sei nascosto, Amato?” grida l’anima “Sola qui, gemente, mi hai lasciata! Come il cervo fuggisti […] .10
Ugualmente, Radha brama l’amore di Krishna e si strugge per lui, che invece la fa ingelosire giocando con le altre pastorelle, scompare, si nasconde ai suoi occhi, lasciandola nel triste languore della separazione. Così la metafora dell’innamoramento, nelle sue molteplici sfaccettature fra esaltazione e tormento, diviene uno dei tratti più tipici della letteratura devozionale dell’India medievale, e non solo.

L’impatto del ‘movimento della bhakti’ fu enorme e multidimensionale sulla società indiana, specialmente perché si affermava una nuova idea, del tutto estranea alla tradizione Vedico-Brahmanica, vale a dire che tutti i fedeli, a prescindere dalla casta e dal genere, potessero anelare ad un rapporto diretto con la figura divina prescelta (concepita come un dio [o una dea] personale), e realizzare l’unione mistica con essa.

Un’esperienza dolce e potente insieme, resa possibile proprio da quell’amore per il divino, che ha infiammato anche molti santi cristiani. Basti pensare alle estasi mistiche di Santa Teresa d’Avila, immortalata in marmo e bronzo dorato dal Bernini nella chiesa di Santa Maria della Vittoria a Roma (Fig. 2).

S Teresa
Fig. 2 S. Teresa d’Avila. Cappella Cornaro, Santa Maria della Vittoria, Roma. © Tiziana Lorenzetti

Qui la Santa, distesa su una nuvola, ascende al cielo sotto una pioggia di raggi luminosi mentre un angelo sta per trafiggerle il cuore con una freccia. In alto, sull’arco della volta, creature celesti recano un cartiglio dove campeggia una frase, emblematica dell’amore reciproco fra l’anima e Dio: “Nisi coelum creassem ob te solam crearem” (se non avessi creato il cielo, per te sola [Teresa] lo creerei). Parole che, secondo la Santa, le avrebbe rivolto Gesù, apparso dinnanzi a lei in tutto il suo splendore. E non solo il Cristo si manifestava; anche angeli e cherubini popolavano le estesi mistiche di Teresa che, infatti, nella sua autobiografia scrive:
“Vedevo vicino a me, sul lato sinistro, un angelo […] era piccolo, molto bello e nelle mani aveva un lungo dardo d’oro che sulla punta di ferro mi sembrava avesse un po’ di fuoco. Pareva che me lo configgesse a più riprese nel cuore, così profondamente che mi giungeva fino alle viscere, e quando lo estraeva sembrava portarselo via lasciandomi tutta infiammata di grande amore di Dio. Il dolore della ferita era così vivo che mi faceva emettere dei gemiti, ma era così grande la dolcezza che mi infondeva questo enorme dolore, che non c’era da desiderarne la fine, né l’anima poteva appagarsi che di Dio. […] È un idillio così soave quello che si svolge tra l’anima e Dio, che io supplico la divina bontà di farlo provare a chi pensasse che io mento”.11

Anche San Francesco d’Assisi, che esortava i suoi frati a lavorare con fedeltà e devozione, amava Dio con tanto ardore che Tommaso da Celano, suo discepolo e biografo, così scrisse: “[Egli] a sentir l’espressione ‘amor di dio’, si eccitava, si commoveva e s’infiammava come se venisse toccata col plettro della voce la corda interiore del cuore”12.
Così fu anche per la bhakti indiana che accese la spiritualità delle genti dell’India, risvegliandole a quel fremito di amore verso la divinità, a lungo sopito. Conseguenza di questo sentimento diffuso fu la fioritura di icone divine, a cui il fedele si rivolgeva con fiducia. Ora, sebbene il culto delle immagini non indichi automaticamente una teologia della bhakti – dato che vi furono anche devoti che adoravano il divino senza il supporto di qualsiasi forma13 –, è innegabile che una rappresentazione tangibile del dio (o della dea) faciliti quel rapporto intimo e personale di cui si nutre gran parte della devozione induista. Non a caso, la venerazione delle icone divine fu uno degli aspetti più tipici della corrente della bhakti, e rappresentò il punto di intersezione fra la religione e l’arte dell’India medievale.

L’Arte e la Religione. Le icone divine

In India, anche l’espressione artistica (sia che si tratti di pittura, scultura o architettura) diviene fondamentale per quel cammino di elevazione spirituale che conduce alla cessazione dei cicli di nascite e morti e, dunque, alla Liberazione. A questo scopo, le immagini degli dei sono essenziali; non va dimenticato, infatti, che le numerose divinità dell’Induismo sono, tutte, forme molteplici dell’unica Realtà, il brahman. Unite in un sistema di manifestazioni discendenti, esse simboleggiano i diversi momenti di attuazione di quella Realtà universale e funzionano da tramite verso di essa. Le loro icone, dunque, frutto di visioni meditative, sono essenzialmente veicoli di purificazione e di trasformazione interiore. Proprio perché il loro scopo è dare espressione ad un messaggio spirituale, esse non imitano né idealizzano le forme umane. Infatti, hanno spesso volti molteplici, numerose braccia e perfino teste di animali, come il veneratissimo dio-elefante Ganesh, colui che rimuove gli ostacoli (Fig. 3).

Ganesh
Fig. 3 Il dio Ganesh. Museo Archeologico, Khajuraho, Madhya Pradesh. ©Tiziana Lorenzetti

Immagini visionarie, dunque, morbide di ondulazioni e dotate di grande potenza espressiva, dove l’aspetto terrifico e quello benevolo si alternano, proprio come nella vita si avvicendano nascita e morte, luce e tenebre, il tremendo e il meraviglioso, aspetti opposti ma inscindibili della dualità cosmica, che va comunque trascesa (Fig. 4).

Durga
Fig. 4 La dea Durga uccide il demone-bufalo Mahisha. Kathmandu, Nepal. © Tiziana Lorenzetti

Non c’è dubbio che tali iconografie risultino spesso incomprensibili per noi occidentali; e ancora di più lo erano per i primi viaggiatori europei che, abituati alla simmetria dell’arte classica, ne furono assai turbati. I missionari cristiani, poi, ne rimasero così sconvolti da considerarle forme demoniache. Solo per citare un esempio, il Frate Minore Odorico da Pordenone, che nel XIV secolo attraversò l’India, parla di idoli mostruosi. Un giudizio unanime e diffuso che rimase a lungo inalterato, tanto che ancora nel XVII secolo, il geografo inglese Thomas Salmon così scriveva:
“Le statue dei loro idoli sono molto deformi e scandalose per la loro nudità, tanto che gli Europei non dubitano di chiamarli demoni. Alcuni hanno testa di porco. Altri hanno il volto di uomo e la parte bassa di lione”14.
Se queste erano le opinioni di viaggiatori e missionari, stupisce che non meno disgustati fossero anche i primi studiosi. Fra questi, spicca l’irlandese Vincent Smith che, ancora all’inizio del 1900, parlava delle immagini delle divinità indiane come di idoli orribili. Ci vorrà ancora qualche decennio affinchè gli studiosi europei si rendessero conto che tali icone non rappresentavano la bellezza del mondo della materia; esse erano e sono il mezzo che suscita, in chi le contempla con consapevolezza, devozione e, soprattutto, seguendo i rituali, un ampliamento dei piani di coscienza.

Il viaggio evolutivo della coscienza. Il rituale.

Le immagini degli dei induisti vengono adorate secondo varie modalità, prescritte dai testi sacri. Ogni rito, tuttavia, pervaso da un simbolismo sottile e frutto di una secolare elaborazione, è volto a stabilire un rapporto diretto fra il devoto e il divino attraverso l’icona. Infatti, sebbene il divino sia presente sempre e in ogni luogo, è solo mediante complesse cerimonie, officiate dai brahmini, che l’essenza divina viene destata e trasferita nell’immagine sacra: senza questa ‘discesa’ la statua è un semplice pezzo di pietra, legno o bronzo (Fig. 5).

Brahmino
Fig. 5 Brahmino del tempio Amritagateshvara. Tamil Nadu. © Tiziana Lorenzetti

Va detto, però, che il rituale, da solo, non è sufficiente a garantire l’attuarsi della presenza divina nell’icona. Essa stessa deve essere realizzata secondo precisi canoni iconometrici (sanciti dai testi), che fissano i rapporti proporzionali fra le varie parti del corpo, il numero delle membra, i gesti, gli emblemi. Se le proporzioni non vengono rispettate — così citano alcuni testi —, non solo “gli dei non l’abiteranno mai”15, ma c’è il rischio che al posto del divino si manifesti una presenza malefica16. Si capisce, dunque, la precisione con cui viene realizzata un’immagine devozionale, sebbene non tutti i trattati siano così rigidi e catastrofici. Altri, infatti, con più benevolenza, specificano che il rigore delle proporzioni è richiesto solo per alcune immagini e che l’atteggiamento amorevole del fedele supplisce ad ogni mancanza o errore.
Dopo che la divinità ha preso dimora nell’icona, questa può finalmente essere esposta alla venerazione pubblica. Si instaura così un’intima relazione emozionale fra il fedele e il divino che vive temporaneamente nell’immagine. Il reciproco contatto visivo (darshan), sugellato dall’offerta di fiori, incenso e canti, rafforza questo rapporto, stabilendo quasi una sorta di relazione ‘magica’, per cui la figura penetra nella coscienza del fedele, mentre questo si proietta nell’icona, suscitando in se stesso ciò di cui l’immagine è espressione. In questo modo il devoto, evocando nel suo intimo i piani divini raffigurati dagli dei, acquista consapevolezza della propria sostanza divina, distruggendo a poco a poco l’illusione della dualità che avvolge il mondo fenomenico.
L’intimità rituale con il divino conferisce all’icona che lo ospita il rispetto e le cure che si devono a una manifestazione vivente del sacro, secondo un preciso cerimoniale prescritto dai testi, che impongono di trattare la forma della divinità come un essere vivente, da aspergere ogni giorno con l’acqua lustrale, vestire, nutrire e ornare (Fig. 6).

Subrahmanya
Fig. 6 Il dio Subrahmanya con le sue due mogli. Tempio Amritagateshvara. Tamil Nadu. © Tiziana Lorenzetti

Una volta terminato il rito, la presenza divina si dissolve nei suoi piani trascendenti: alcune immagini, infatti, sono realizzate con materiali deperibili, proprio per essere distrutte alla fine della cerimonia, quando la presenza divina che le aveva pervase le ha abbandonate.


Bibliografia
Caracchi Pinuccia, “La presenza divina nella mūrti secondo i PurāṇaIndologica Taurinensia, X, Torino 1978, pp. 3-18.
Giovanni della Croce, Cantico spirituale, (curatore E. Pacho), Roma, 2004.
Lorenzetti Tiziana, “Devozione religiosa ed esperienza artistica. Il culto di Śrīnāthjī in RajasthanStudi e Materiali di Storia delle Religioni (SMSR) Università di Roma La Sapienza, fasc. 80/2, pp. 540-563.
Milanetti Giorgio “Brahmānanada, Madhurā bhakti ed Erotismo ṣūfῑ nella poesia di Dādū Dayāl”, Rivista degli Studi Orientali, vol. 56, 1982, pp. 131-141.
Santa Teresa di Gesù, Libro della Vita, Roma, 2005.
Salmon Thomas, Lo stato presente di tutti i paesi e popoli del mondo naturale, politico, e morale con nuove osservazioni, e correzioni degli antichi e moderni viaggiatori. Vol. iv, pag. 282. Venezia, 1731-1766. (Traduzione dall’originale inglese The Present State of All Nations e stampa di Giovanni Battista Giuseppe Albrizzi).
Tommaso da Celano, Vita Seconda di San Francesco d’Assisi, cap. CXLVIII, v. 784 Sito
Tucci Giuseppe, Forme dello spirito asiatico, Milano-Messina 1940.
Tucci Giuseppe, Italia e Oriente. Roma, 2005 (I ed. 1949).
Tucci Giuseppe, Storia della filosofia indiana. Roma,1981 (I ed. 1957).


Note

1. Giuseppe Tucci, Italia e Oriente. Roma, 2005 (I ed. 1949), pag. 95.
2. Ricordiamo che l’induismo (termine coniato dagli occidentali) è un insieme di culti, sistemi filosofici, tradizioni e rituali –spesso di origine molto antica, ma tuttora ben vivi– che fondano e regolano la struttura sociale, la cultura e la vita pubblica e privata degli induisti.
3. Giuseppe Tucci, Storia della filosofia indiana. Roma,1981 (I ed. 1957), pag. 11.
4. Secondo il pensiero religioso-filosofico indiano, ogni essere vivente è soggetto ad un ciclo infinito di nascite, morti e rinascite (in vari regni).
5. Il temine Upanishad significa etimologicamente ‘sedersi ai piedi di un Maestro (per ascoltare ciò che dice)’. Si tratta di un corpus di oltre cento opere che si snodano via via nei secoli, seguendo lo sviluppo del pensiero indiano. Realizzate in versi o in prosa (la forma del pensiero speculativo), spesso con un linguaggio simbolico/intuitivo, le Upanishad più antiche risalirebbero, non senza qualche incertezza, al VII secolo a.C.
6. Tiziana Lorenzetti, “Devozione religiosa ed esperienza artistica. Il culto di Śrīnāthjī in Rajasthan” Studi e Materiali di Storia delle Religioni (SMSR) Università di Roma La Sapienza, fasc. 80/2, pp.
7. Le vie per giungere alla Salvezza sono molteplici: c’è, appunto, il sentiero della devozione, la via della pratica religiosa, della conoscenza, dello yoga e della grazia. 540-563.
8. Robert Charles Zaehner, L’induismo, Bologna, 1966, pp. 184-286.
9. Questa interpretazione mistica è senz’altro la più diffusa; tuttavia, il mito è assai più complesso e presenta diverse chiavi di lettura. Per un approfondimento, si veda Giuseppe Tucci, Forme dello spirito asiatico, Milano-Messina 1940, pp. 92-99.
10. Giovanni della Croce, Cantico spirituale, (curatore E. Pacho), Roma, 2004, strofa I.
11. Santa Teresa di Gesù, Libro della Vita, Roma, 2005, cap. XXIX, v. 13. Sembra che la Santa ebbe questa visione mentre era priora nel monastero dell’Incarnazione ad Avila. Un’esperienza così straordinaria che viene ancora commemorata il 27 agosto in tutte le Diocesi di Spagna.
12. Tommaso da Celano, Vita Seconda di San Francesco d’Assisi, cap. CXLVIII, v. 784 Sito
13. Giorgio Milanetti, “Brahmānanada, Madhurā Bhakti ed Erotismo ṣūfῑ nella poesia di Dādū Dayāl”, Rivista degli Studi Orientali, vol. 56, 1982, pp. 131-141.
14. Thomas Salmon, Lo stato presente di tutti i paesi e popoli del mondo naturale, politico, e morale con nuove osservazioni, e correzioni degli antichi e moderni viaggiatori. Vol. iv, pag. 282. Venezia, 1731-1766. (Traduzione dall’originale inglese The Present State of All Nations e stampa di Giovanni Battista Giuseppe Albrizzi).
15. Vishnudarmottara Purāṇa III, 38, 22-23, citato da Pinuccia Caracchi “La presenza divina nella mūrti secondo i Purāṇa” Indologica Taurinensia, X, Torino 1978, p. 10.
16. Pinuccia Caracchi “La presenza divina nella mūrti secondo i Purāṇa” Indologica Taurinensia, X, Torino 1978, p. 10.