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Bruno di Marcello
Il silenzio sembra essere diventato, nel mondo moderno, il peggiore nemico dell’essere umano. Gli oggetti elettronici che si moltiplicano nelle nostre case, nelle auto, perfino sui luoghi di lavoro, sono fatti apposta per rompere il silenzio, visto come un peso, un inutile momento di noia, ma soprattutto di solitudine.
Il dialogo interiore che scaturirebbe dal silenzio è evidentemente giudicato un fastidioso freno alla nostra vita in corsa. Certo, troppe sono le cose che non vogliamo sentire in un ambiente circostante che non ci piace più, che ci impaurisce e ci appare ostile, ma la paura maggiore sembra essere la possibilità di ascoltare noi stessi, di trovarsi faccia a faccia con le proprie fragilità e doverci fare i conti.
Il cinema o per meglio dire i film, si sono diffusi nelle nostre case contribuendo solo al rumore di fondo: se ne sceglie uno a caso su una piattaforma e lo si lascia scorrere senza lasciare il cellulare, continuando a chattare.

Eppure, il cinema nasce muto o per meglio dire silenzioso. Un limite tecnico presto superato? Può darsi. Ma non è un caso che all’avvento del sonoro i padri fondatori, come Charles Chaplin e molti altri, abbiano minacciato la rivolta. Molti divi dell’epoca sarebbero stati spazzati via, perché il loro modo fisico di recitare sarebbe risultato obsoleto, il 50% del racconto sarebbe stato affidato al dialogo. Ma Chaplin e gli altri non protestavano per questo. Il vero punto è che la concentrazione che lo spettatore avrebbe prestato alla visione del film sarebbe cambiata, divenuta più superficiale e, diciamocelo, meno poetica e misteriosa. Dal loro punto di vista, l’avvento dell’audio non sarebbe stato, solo, un aggiornamento tecnico: il cinema, così com’era stato concepito, sarebbe sparito, si sarebbe estinto, per lasciare il posto ad altro.

L’anima del cinema, dunque, ha a che fare col silenzio. E i maggiori autori, pure usando il sonoro, hanno creato i loro capolavori utilizzando l’assenza di suono in maniera espressiva. Ciò è avvenuto privilegiando il suono dell’ambiente e l’azione dei personaggi, rispetto al dialogo, come nel caso di Akira Kurosawa, Theo Angelopoulos e alcuni lavori di Michelangelo Antonioni.

Ma forse uno degli esempi più recenti e più noti di questo modo di raccontare è il film di Wim Wenders “Perfect days” (Produzione Giappone/Germania 2023). Si tratta di racconto itinerante attraverso Tokyo, seguendo Hirayama, un uomo tra i 40 e i 50 anni che per mestiere pulisce, con molta dedizione, i bagni pubblici. Lo vediamo svegliarsi ogni mattina nella sua stanza in una zona periferica e squallida della città, guardare con soddisfazione la luce dell’alba e l’albero di fronte casa, fare colazione con il caffè in lattina del distributore proprio dietro a dove parcheggia il suo antiquato furgoncino, ascoltare, ancora con le audiocassette, la musica degli anni ‘80, e avere a che fare soprattutto con gli alberi (uno al quale è particolarmente affezionato, Hirayama lo fotografa tutti i giorni e poi lo ringrazia). Infine l’uomo cena in un piccolo fast food e ritorna a casa per mettersi a dormire, dopo aver letto un libro. Un breve sogno in bianco e nero riassume i momenti salienti del giorno appena trascorso, poi tutto comincia da capo. Tutti i giorni sembrano uguali, eppure ogni giornata della vita di Hirayama è, a ben guardare, diversa dalla precedente. “Se nulla cambiasse non avrebbe senso” afferma l’uomo in una delle poche battute da lui pronunciate all’interno del film.

Hirayama non parla e neanche giudica. Non giudica le nuove generazioni con le loro paure e nevrosi, incarnate principalmente dal suo unico collega di lavoro; non giudica la nipote né la sorella, che non vede da anni e che ha fatto scelte del tutto diverse dalle sue. Lui si limita a vivere e a non partecipare del caos che lo circonda, cogliendo l’ironia e la meraviglia in tutte le cose e le persone.
Il silenzio, i personaggi introversi, soprattutto l’attenzione meditativa alle piccole e piccolissime cose di ogni giorno sono alcuni segni distintivi del miglior Wenders. Il regista tedesco ci ha abituati ai suoi ritmi distesi ed alla parsimonia di avvenimenti eclatanti fin dall’inizio della sua ormai lunga carriera artistica, passando da Paris Texas, continuando con Il cielo sopra Berlino, ancora con il documentario Lisbon story e così via.

Il cinema, dunque, che per sua natura riesce ad essere tante cose, grazie alla potenza delle immagini a discapito del rumore è stato, e può essere ancora, un veicolo per l’introspezione, diremmo quasi per la meditazione, che ci fa riappropriare del nostro rapporto più profondo con le cose e gli altri.

Ci fa piacere chiudere questo breve discorso sul silenzio al cinema citando Federico Fellini, un autore spesso amante di un tipo di narrazione barocca e debordante, eppure allo stesso tempo tanto legato al silenzio, alla recitazione sussurrata come nelle numerose scene oniriche dei suoi film più noti, a cominciare dal “8 ½”. Lo vogliamo citare poiché ha chiuso la sua carriera e la sua parabola vitale proprio con il monologo sul silenzio di Roberto Benigni in “La voce della luna”, monologo che recita come segue:
« Ecco a cosa serve il silenzio. A capire. Ecco la risposta ad Amleto, il quale ritiene che la vita “È un racconto narrato da un idiota, pieno di strepito e di furore, e senza alcun significato”. Lo strepito, le chiacchiere, il rumore, tolgono significato alla nostra esistenza, o lo celano, non ce lo fanno più “sentire”».
Il silenzio ci ridona il suono della vita.