Maurizio CecchettiMaurizio Cecchetti

At the centre of Maurizio Cecchetti’s study is a canvas depicting an Ecce Homo, destined to be sold by decision of its owners, but blocked in the Ansorena auction house in Madrid before its sale, because it is recognised by many antiquarians and critics as a probable work by Caravaggio. The work became a case, raising a series of important questions about the criteria used for the attribution of new discoveries, including the prospects offered by the powerful means of technology, and about the very value of the discovery of a work of art, in relation to historical research and new horizons of interpretation.

L’8 aprile 2021 è una data importante per Caravaggio. Non è successo niente che giustifichi un tono così perentorio, ma in realtà quella data segna un punto di non ritorno, a mio parere, nella storia recente delle nuove attribuzioni di quadri caravaggeschi. Quel giorno doveva andare all’incanto a Madrid, nella sede della casa d’aste Ansorena, una tela di 111 x 86 cm raffigurante un Ecce Homo che veniva proposta come La Coronación de Espinas, assegnandola genericamente a un pittore seicentesco della “Cerchia di Ribera” al prezzo irrisorio di 1.500 euro.CristoSe si sfoglia il catalogo si potrà costatare che nei primi cento lotti messi in vendita la presenza di opere il cui prezzo di partenza superava i diecimila euro, fino a raggiungere gli ottanta e i novantamila, era abbastanza numerosa. Seguiva quindi una sezione di ceramiche, disegni, arredi, sculture, libri, tappeti dai prezzi piuttosto contenuti, e poi ancora una sezione di dipinti con valori d’asta medio-bassi: fra questi anche l’Ecce Homo ritirato prima dell’apertura dell’asta perché numerosi fra critici e antiquari vi hanno quasi subito riconosciuto la mano (probabile) di Caravaggio.

Lo storico Fabio Scaletti aveva spiegato qualche anno fa in un documentato saggio presente all’interno del volume Caravaggio Vero, a cura di C. Strinati (Reggio Emilia, 2014), che il meccanismo delle attribuzioni quando c’è di mezzo il pittore di origini lombarde segue una logica “espansionista” (la più gradita dagli antiquari e dagli speculatori). I partiti che si affrontano, e non soltanto per Caravaggio, sono due e contrari: gli “espansionisti” si oppongono ai “restrizionisti”. Questi sostengono che ogni nuova scoperta «se non ha l’appoggio dei documenti storici, sia sempre da respingere, fino a prova contraria»; i primi, invece, ritengono che un nuovo quadro «se ha il sostegno dello stile, sia sempre da accogliere nel circuito critico fino a che non se ne accerti (scientificamente o per diffuso dissenso degli studiosi) la falsità». Presunzione di autenticità e onere della prova da parte di chi la contesta. I primi pretendono un riscontro quasi palmare sulle fonti, i secondi si affidano all’intelligenza dell’occhio nel riconoscere lo stile di un artista. Connaisseurs vs filologi.

Il conoscitore, una figura “commissariata”?
Il caso che ha sollevato l’Ecce Homo di Madrid paradossalmente offre appoggi sia all’uno sia all’altro degli schieramenti. E vedremo presto perché. Ma la sintesi di questa prima manche (ce ne saranno altre nei prossimi mesi e anni, e non vanno escluse sorprese che possano raggelare l’euforia di oggi), è contenuta nel titolo di un articolo di Stefano Causa pubblicato sull’edizione online del “Giornale dell’arte” il 9 aprile, quando cioè il caso era rimbalzato su molti giornali italiani: Più Caravaggio di così si muore: che è come dire, bando alla prudenza, è troppo bello per non essere vero. Atteggiamento piuttosto disinvolto da parte di chi, come studioso, sa molto bene che oggi il riconoscimento di paternità di un’opera non può più affidarsi soltanto al potere intuitivo dell’occhio, alla sua intelligenza selettiva, secondo metodi che da Morelli passano per Longhi e arrivano a Zeri. Proprio Zeri, però, era ben cosciente che la tecnica è un aiuto ormai indispensabile agli storici dell’arte: d’altra parte, Zeri fu tra i pochi che non caddero vittime della beffa di Livorno dei falsi Modigliani e, a metà degli anni Ottanta del secolo scorso, smascherò il falso Kouros del Getty – dimettendosi dal board of trustees del Museo che ne aveva deciso l’acquisto –, con la più rudimentale delle verifiche: assaggiò con la lingua la superficie della scultura e riconobbe il sapore degli acidi che erano stati usati per invecchiarla. Oggi anche il conoscitore deve avvalersi di tutti gli altri strumenti messi a disposizione dalla scienza, ma questo, al di là di ogni romantica delusione, significa anche che il suo giudizio viene “commissariato” dalla riserva tecnica che pesa su ogni nuova attribuzione quando non ci sono corrispondenze palmari di autenticità e documenti. Questa potestà della scienza può, in realtà, aumentare il prestigio del conoscitore che trovando conferma negli esami tecnici viene esaltato nella sua capacità di riconoscere lo stile e il linguaggio di un artista.

“Questo quadro è di Caravaggio”
Ansorena, dopo aver messo online il catalogo delle aste, il 18 marzo apre anche le sue stanze per mostrare le opere in vendita. Ansorena è una casa d’aste medio-piccola, non molto distante da Sotheby’s a Madrid. Tratta arte spagnola il cui valore talvolta non è trascurabile, ma si può pensare che sia più abbordabile delle grandi case d’asta per chi vuole vendere un’opera ovvero accetti di mettere all’incanto anche opere il cui valore sulla carta può risultare modesto.
Dal giorno dell’apertura della mostra fin verso la fine di marzo sembra che nessuno si accorga del quadro; in realtà qualcuno ha notato l’Ecce Homo, e nonostante la foto nel catalogo renda poco la qualità dell’opera, basta a un occhio esperto per avere il sospetto che possa essere stata dipinta da un pittore sopra la media. La foto comincia a girare sulle poste elettroniche e i siti personali degli esperti. Chi frequenta il mondo delle aste sa che ci sono persone che di mestiere fanno i segugi e vagliano le offerte di vendita portando a conoscenza degli antiquari e dei loro studiosi di riferimento le opere più interessanti. Uno di loro, Antonello Di Pinto, che si definisce professore di storia dell’arte e intermediario, ha poi detto di aver notato la tela già il 15 marzo, ancor prima che venisse esposta, e di aver spedito la foto dell’opera ad alcuni antiquari e a critici come Vittorio Sgarbi. Massimo Pulini, uno storico dell’arte che ha già all’attivo la scoperta e l’attribuzione di un’opera a Caravaggio, il ritratto conservato al Museo Civico di Montepulciano che egli ha riconosciuto come quello di Scipione Borghese prima che fosse creato cardinale (vedi M. Pulini, Caravaggio nero fumo, Milano 2010), ha dichiarato di aver ricevuto da un antiquario la foto dell’opera il 24 marzo e di essersi subito convinto che fosse quella che il Merisi realizzò per il cardinale Massimo Massimi, monsignore romano di origini nobiliari, in una sorta di gara che coinvolse tre artisti all’oscuro l’uno dell’altro: il Caravaggio, appunto, Ludovico Cardi detto il Cigoli e Domenico Cresti detto il Passignano. La scelta cadde sul Cigoli, forse perché, come sostengono Pulini e altri, Caravaggio all’epoca, pur essendo l’artista più noto a Roma, si era appena macchiato dell’assassinio di Ranuccio Tomassoni. Un delitto che lo costrinse a fuggire dalla giustizia pontificia prendendo la strada di Napoli e poi di Malta, e lo rendeva poco presentabile per chi frequentava l’entourage dell’aristocrazia e della gerarchia ecclesiastica romana. La storia del “Caravaggio maledetto” sembra iniziare così, in realtà la scoperta di documenti come il trattato del Celio ci fa sapere che forse per un caso analogo di omicidio era stato costretto a fuggire da Milano quand’era ancora sconosciuto ai più.

Stranezze e anomalie di un caso
Comincia una competizione fra antiquari che dura poco e porta al ritiro dalla vendita dell’opera. Nel frattempo le autorità spagnole pongono il vincolo che impedisce di esportare l’opera fuori dai confini; il Museo del Prado – che possiede la Salomé di Caravaggio, una delle due tele portate dall’Italia in Spagna nel 1657 dal viceré: l’altra sarebbe questo Ecce Homo – si dice interessato ad acquistare il quadro. Grande delusione dei maggiori antiquari giunti a Madrid per cercare di accaparrarsi l’opera. Il primo che si era fatto avanti per l’acquisto fuori asta già dal 5 aprile pare sia stato Paul Smeets, antiquario responsabile di settore per la pittura antica alla fiera di Maastricht, la Tefaf, il più importante appuntamento a livello mondiale per chi opera in questo campo. Smeets ha dichiarato a “Repubblica” di aver prima offerto ai proprietari 300mila euro, arrivando, dopo varie telefonate, a 3 milioni e facendo così saltare il banco. Bisogna immaginare la situazione: i proprietari, tre fratelli di una importante famiglia spagnola, che avevano messo all’asta l’opera per 1500 euro, si vedono offrire 200 volte tanto. Chi non avrebbe mangiato la foglia? Chi non avrebbe pensato: quale persona sana di mente offrirebbe una tale cifra per qualcosa che è stato valutato così poco? Quando poi la cifra è salita a duemila volte la base d’asta, il gioco era finito. Nessuno dei possibili concorrenti avrà l’opera, che sul mercato internazionale può valere 100milioni di euro, se non di più (le stime per il mercato spagnolo, quindi senza la possibilità di esportazione, scendono a una forbice che va dai 30 ai 50 milioni). Questa mossa spericolata da parte di un antiquario esperto come Smeets è soltanto una delle stranezze che segnano questo caso. E fa pensare che egli fosse cosciente della sua imprudenza, ma abbia magari fatto in modo che l’opera venisse tolta dal mercato e non finisse nelle mani di qualche concorrente facoltoso (per esempio la galleria Colnaghi, una delle più prestigiose al mondo, che però nel frattempo è diventata consulente dei proprietari).
La decisione stessa di mettere all’asta quella tela a un prezzo che per un’opera di questa apparente qualità risulterebbe ridicola anche per un autore anonimo o, come in questo caso, assegnato alla cerchia di un caravaggesco quotato come Ribera, resta davvero inspiegabile. Possibile che ad Ansorena nessuno si sia accorto della sproporzione? Se è stata una leggerezza, getta molte ombre sulla professionalità della casa d’aste.

1823: la prima data certa di esistenza
Chi sono i proprietari dell’opera? Qui la storia diventa molto interessante, perché fa risalire fino a colui che ne acquisì la proprietà con una permuta. Nelle settimane successive alla scoperta, chi ha fatto di più per aggiungere informazioni e conferme storiche è stato, com’è ovvio, il quotidiano spagnolo “El Pais” che ha pubblicato vari approfondimenti, risalendo al primo documento che testimonia la presenza in Spagna dell’Ecce Homo caravaggesco. La storia rimonta fino al 1823, quando un politico spagnolo di grande importanza – fu uno degli artefici della Costituzione di Cadice del 1812 e guidò il governo spagnolo per alcuni anni durante la reggenza di Maria Cristina –, il liberale Evaristo Pérez de Castro propose alla Real Academia de Bellas Artes de San Fernando una permuta fra un quadro di Alonso Cano, all’epoca pittore molto stimato e con valori più elevati di Caravaggio, che raffigura San Giovanni Battista; in cambio chiede un’opera di proprietà dell’Accademia, e propone di scegliere fra quattro da lui indicate, ponendo al quarto posto l’Ecce Homo oggi al centro del caso (al momento della permuta, il documento del 1823 nomina il quadro come «Ecce-Hommo con dos sayones de Carabaggio»). Le ragioni per cui venne scelta quest’opera sono in sostanza due: Caravaggio, all’epoca, era meno considerato rispetto a Cano, che corrispondeva meglio al gusto in voga; ma a tagliare la testa al toro fu la verifica in base alla quale l’Ecce Homo risultò d’ignota provenienza, l’Accademia infatti non aveva traccia di come fosse entrato nelle sue collezioni e questo metteva al riparo da future rimostranze possibili da parte di vecchi proprietari (“El Pais”, 1° maggio 2021). I ricercatori attuali dell’istituzione spagnola sono invece propensi a credere che si tratti di un’opera proveniente dalla collezione di Don Manuel Godoy, nobile e politico spagnolo morto nel 1851, mentre gli incaricati dell’Accademia che dovevano accertarne la provenienza nel 1823 esclusero che venisse dalla collezione Godoy e per questa ragione il quadro fu ceduto con una certa tranquillità a Pérez de Castro e da lui, lungo le generazioni che si sono avvicendate per due secoli, l’opera è arrivata ai tre fratelli che portano quell’illustre cognome.”

I proprietari: una famiglia di artisti e architetti
Ma ecco un’altra delle numerose stranezze che segnano questo caso. La famiglia dei fratelli Pérez de Castro non è composta da persone estranee al mondo dell’arte. Tutt’altro. Il padre del tre fratelli, Antonio Pérez de Castro, aveva sposato Mercedez Méndez de Atard, figlia di Diego Méndez che dal 1940 fu Consigliere del Patrimonio Nazionale e architetto incaricato di completare il monumento per la Valle dei Caduti negli anni 50. Il quadro era rimasto appeso per molti anni nel salotto di un appartamento del quartiere madrileno di Salamanca, l’abitazione di Mercedez. La proprietaria non è soltanto la madre dei tre fratelli che oggi possiedono l’opera, ma è stata un’artista che ha seguito le orme del Bauhaus sia nell’astrazione che nella poetica dei colori, e ha insegnato pittura alla scuola di design IADE. Proprio questa scuola è gestita dalla famiglia Pérez de Castro ancora oggi, e i tre figli di Mercedez vi ricoprono incarichi di primo piano: Antonio (vicedirettore), Diego (amministratore delegato) e Mercedes, che porta lo stesso nome della madre, coordinatrice del corso di Design d’interni. Questo contesto familiare rende incredibile che nessuno dei Pérez de Castro Méndez si sia reso conto che stava mettendo all’asta un’opera di una qualità superiore, per soli 1500 euro. Che cosa ci sfugge in questa storia che rientra a pieno titolo nella “Caravaggiomania” che segna il nostro tempo?

Caravaggiomania e carenza di nuove ipotesi
In più occasioni, recensendo le mostre dedicate a Caravaggio, ho proposto che venga stabilita una “moratoria” di almeno tre anni nella quale si smetta di usare il mito dell’artista, che continua a essere definito ovunque come il “pittore maledetto”, e si torni a studiare la sua opera non per ribadire o negare le attribuzioni, ma per darne nuove interpretazioni. Ci sono in alcuni quadri del Caravaggio zone d’ombra con significati nascosti che devono essere ancora chiariti. Dopo l’ipotesi del Caravaggio “pittore della realtà” (Longhi), o del Caravaggio pittore esemplare della Controriforma (Dall’acqua, Calvesi), dopo i tentativi di legare la sua opera alla ricerca della scienza galileana (Bologna) o di farne un “eretico” come testimone del pensiero aperto di Giordano Bruno (Argan-Panzera), da almeno quarant’anni non emerge una lettura della sua opera che sappia intrecciare in un nuovo disegno i fili delle precedenti ipotesi. Sul piano delle scoperte nessuna opera apparsa sulla scena dopo l’attribuzione negli anni Novanta della Cattura di Cristo di Dublino ha suscitato tanti consensi come l’Ecce Homo appena riapparso a Madrid. Nell’ambito delle nuove attribuzioni si è continuato a dividersi su questioni sicuramente importanti per il lavoro critico come quella delle copie autografe o meno, oppure sulle ormai famose “incisioni” che Caravaggio, anziché disegnare, faceva usando la punta del manico del pennello, da alcuni considerate il suo marchio di fabbrica (ma, per una ragione di buon senso dovremmo chiederci: se noi oggi notiamo questi segni e li consideriamo funzionali a un modo di preparare il quadro alle forma da dipingere, perché non dovrebbero essersene accorti anche i pittori del suo tempo? Qualcuno lo avrà emulato? Una conferma della ragionevolezza del dubbio sembra venire proprio dal caso dell’Ecce Homo di Madrid, che presenta questi tipici segni; la scoperta dell’opera ha però fatto “declassare” l’Ecce Homo di Genova, attribuito nel 1954 da Longhi a Caravaggio, ma da molti oggi messo in forse, opera che tuttavia ha rivelato anch’essa alcune “incisioni”: l’occhio è incline a rifiutarne la paternità caravaggesca, troppo diversa risulta l’immagine umana che distingue la tela di Genova dall’iconografia delle opere caravaggesche sicure, tanto più quelle del periodo napoletano-maltese e poi siciliano. Questo, però, potrebbe significare che il quadro di Genova è stato dipinto da qualcuno che aveva appreso e applicato il metodo delle “incisioni”, e in tal caso bisognerebbe cercare fra i pittori che disegnavano poco o controvoglia… Longhi nella sua attribuzione si spingeva fino in Sicilia e su “Paragone” pubblicava anche la foto di un quadro, di ubicazione ignota, che sembra una copia di quello di Madrid ma, per quel che si può dire dalla brutta immagine pubblicata dallo storico, di qualità assai inferiore e con alcune differenze marginali ma importanti).

La tecnica scioglierà tutti i dubbi?
Infine una considerazione sull’importanza delle analisi tecniche in un quadro come quello di Madrid. Alcuni documenti portano a Caravaggio e delineano una storia iniziale, che poi si è smarrita nei successivi due secoli finché il quadro non è riapparso nell’asta Ansorena. Non sappiamo bene che traversie abbia vissuto; sarebbe necessario un’analisi della materia pittorica per capire se corrisponde alle scelte cromatiche che Caravaggio era solito fare; studiare la tela: non sarebbe la prima cosa da fare, dopo aver intuito la probabile mano dell’autore? Tutti hanno parlato del davanti della tela, ma nessuno ha fatto riferimento al retro, che in realtà offre una informazione importante: il quadro è stato rintelato. Quando? Al momento, dunque, non si sa praticamente nulla del tipo di tela usato, delle sue condizioni di conservazione.
Cristina Terzaghi ha notato che in certi punti il colore sembra “quasi cotto”, che il quadro è sporco e andrebbe pulito per avere un riscontro migliore della qualità pittorica. Vi sono stati in passato restauri che possono aver alterato la resa del quadro? La figura di Pilato che mostra alla folla il Cristo flagellato, d’istinto mi pare troppo dialogante con lo spettatore rispetto alle scelte iconografiche del Caravaggio. Il Cristo, invece, mi fa pensare ai quadri del periodo di Napoli, ma con una naturalezza persino eccessiva che appare quasi “troppo umana” anche per Caravaggio (e molto in sintonia con la nostra sensibilità); la figura che toglie il mantello rosso dalle spalle di Cristo è forse il momento di maggiore espressività del quadro, ma anch’essa mi pare caravaggesca più nell’aggettivo che nel sostantivo, sebbene lo “stupore attonito”, quasi un ictus nello svolgimento della scena, rientri nelle espressioni tipiche dell’iconografia caravaggesca. Lo stile del pittore, dopo la fuga da Roma, tende a farsi più essenziale, come un teatro spoglio di ogni consolazione. L’Ecce Homo di Madrid, invece, è molto consapevole della propria bellezza, e chi lo ha dipinto vi si riflette con più certezze di quante ne abbia Caravaggio mentre dipinge il David e Golia della Borghese. Sono solo pensieri, non un giudizio sull’attribuzione condivisa da molti.
A queste domande si potrà rispondere facendo maggiori verifiche. Alcuni invocano interventi di “manutenzione ordinaria”, ma già qualcuno alza le mani. È Manuela Mena, storica dell’arte e già vicedirettore per la Conservazione e la ricerca del Museo del Prado che oggi vive in Inghilterra: su “El Pais” (3 maggio) ha dato il suo parere in modo molto chiaro: «Non toccate quel quadro», nessuna pulizia e nessun ripristino, «sarebbe un attacco a un’opera d’arte». E ha aggiunto: «Non è necessario restaurare un’opera finché non entra in un museo e si stabilisce che sarebbe meglio pulirlo». È un parere consapevole di quanti danni si possono fare quando si restaura un’opera; anche Federico Zeri ribadì in varie occasioni che restauri meno se ne fanno e meglio è. E a proposito delle troppe attribuzioni a Caravaggio, nel 1994, a Mentana dove fui suo ospite per alcuni giorni mi disse: «Tutti lì a cercare un Caravaggio nuovo, non per fare storia dell’arte, ma per passare alla storia». È quello che mi veniva in mente dopo aver assistito all’ennesima gara dei critici per arrivare per primi a scoprire l’Ecce Homo di Caravaggio.

Saggio apparso su Vita e Pensiero, n.ro 3/2021, maggio-giugno