Mostre

A PIACENZA PIU’ CHE A DRESDA:
IL DESTINO DELLA MADONNA SISTINA DI RAFFAELLO

di Roberto Tagliaferri

Si sa che la Madonna Sistina di Raffaello, commissionata nel 1512 per la Chiesa di San Sisto a Piacenza dai benedettini della Congregazione di Santa Giustina a Padova, fu poi venduta a Federico Augusto di Sassonia per 25.000 scudi nel 1754. Motivo dell’alienazione del bene fu il cattivo stato delle casse del monastero. L’episodio biasimato dalle successive generazioni per la perdita di un capolavoro finito a Dresda, trova in questo spostamento due interessanti interpretazioni. Da un lato Dresda diede fama al dipinto, tanto che M. Puscher nel 1955 scrive: “Dimenticato in Italia, rimasto sconosciuto nel resto del mondo, questo dipinto ha cominciato a irradiare un’influenza sempre più forte con la vendita a favore di Dresda. Un secolo più tardi era il quadro più famoso del mondo”. D’altro canto la Chiesa madre di San Sisto a Piacenza mantiene ancora oggi l’aura che permette a questo dipinto di esprimere al massimo la sua magia mistica.

M. Heidegger arrivò a ipotizzare un suo ritorno nella città d’origine perché “nell’immagine, in quanto questa immagine, appare l’apparire del divenire uomo di Dio, avviene quella trasformazione che sull’altare si eventua come transustanziazione, il più proprio del sacrificio della messa”. E il filosofo tedesco conclude: “La Sistina dovrebbe stare in una particolare chiesa di Piacenza non in senso storico-antiquario ma secondo la sua essenza di immagine. In conformità a questa, l’immagine sempre esigerà di essere in quel luogo”.

Su questi presupposti la mostra in corso nella chiesa di S. Sisto a Piacenza, intitolata “La Madonna Sistina di Raffaello a Piacenza. Storia dell’opera e del monastero di San Sisto” ed. T.I.P.L.E.C.O, si propone non come semplice rievocazione storico-artistica del capolavoro di Raffaello, ma come ricostruzione di un contesto totale di architettura e iconografia del miracolo rivelativo dell’adventus della Vergine col Bambino in braccio. Il quadro con la monumentale cornice dorata in San Sisto restituisce alla Chiesa, deprivata dell’abside per il suo allungamento, la dimensione escatologica che congiunge cielo e terra. Strabiliante è quel gioco degli occhi dei divini celesti, che fa dire a A. Schopenhauer: “Ella lo porge al mondo: ed egli guarda atterrito nella caotica confusione dei suoi orrori”. Non è comune tenere questa sinestesia di linguaggi estetici, soprattutto da quando l’arte si è staccata dal sacro tradizionale cristiano per aprirsi una strada nuova di sacralità laica attorno ai sentimenti più universali. L’audacia di Raffaello nella Madonna Sistina non ha colpito solo gli Ortodossi, da sempre polemici con la chiesa d’Occidente per il suo amore per l’arte piuttosto che per l’icona, ma ha colpito anche il maestro del sospetto per antonomasia, F. Nietzsche, quando in Umano troppo umano scrive: “Qui egli volle per una volta dipingere una visione: ma una visione quale possono avere e avranno anche dei nobili giovani senza ‘fede’, la visione della futura sposa, di una donna intelligente, di animo nobile, silenziosa e molto bella, che porta in braccio il suo primogenito”.
Mi urge fare in proposito qualche considerazione in relazione al momento storico che stiamo vivendo, provocato dalla ambiguità semiogenetica della Sistina, che sa smuovere anche oggi sensibilità così diverse. Innanzitutto il dibattito ecclesiale antico e mai spento sul valore performativo delle immagini.

Si può parlare quasi di sacramento riguardo all’icona? Qualcuno sostiene che non si possa parlare di problematica sacramentale nella questione antica delle immagini. P.A. Sequeri sostiene: “Quella che continua ad essere intitolata e descritta come questione dell’immagine è in realtà la messa a punto della questione del sacramento”1. L’autore ritiene che l’immagine sia sotto il segno della rappresentazione e non possa essere nell’ordine del sacramento. La legittimità dell’icona in forza dell’incarnazione sarebbe una “banalità”. “Il problema vero è di decidere in quali termini l’icona sia mediatore della presenza del Signore raffigurato, dal momento che nessuno pensa di equipararla al sacramento eucaristico della sua presenza”2.

Il teologo milanese tende a precisare lo “scarto incolmabile” tra l’odierna teoria del segno e la speciale mediazione dell’immagine cristologica della Chiesa orientale. Tuttavia ribadisce che l’odierna teoria della rappresentazione è incompatibile con la presenza sacramentale. È come il rapporto tra l’idolo deciso da noi e il sacramento deciso da Cristo. Di qui le sue ritrattazioni del simbolico, quando si risolve in rappresentazione segnica del sacramento. “Il problema del rapporto intrinseco fra significazione ed efficacia è proprio l’interrogativo che impone la distinzione fra immagini del divino e sacramenti della rivelazione”3.

Io sono di diverso avviso sia perché non tutta l’arte contemporanea si risolve in rappresentazione, come ad esempio l’arte astratta soprattutto quando diventa parte integrante della performance rituale, sia perché nel tempo antico vigeva una certa magmaticità del concetto di sacramento. Il tema dell’efficacia si risolveva nella teoria delle ipostasi molteplici del modello celeste archetipale e non c’era l’ossessione della presenza reale nell’eucaristia. L’espediente pittorico di Raffaello della “finestra dipinta” per la Madonna Sistina, collocata originariamente nella chiesa di San Sisto a Piacenza è uno degli esempi più eloquenti per riflettere sul valore religioso dell’immagine in Occidente e sul rapporto tra iconografia ed esperienza religiosa ecclesiale. È risaputa la dolorosa vicenda che ha diviso la Chiesa d’Oriente da quella d’Occidente in seguito alla crisi iconoclasta, che non ha trovato soluzione neppure nell’intesa del Concilio Niceno II, dove ci si appellava al principio dell’Incarnazione per armonizzare l’umano e il divino.

Il destino delle due sensibilità ha avuto evoluzioni molto differenti: mentre l’Oriente ha mantenuto una concezione ierofanica dell’icona, garantita da una sorta di fissità e di immutabilità nella riproduzione del modello archetipale, che non ammetteva la creatività dell’artista pena la riduzione di Dio all’uomo, viceversa l’Occidente vedeva la proliferazione sfarzosa della immaginazione umana in infinite variazioni, dove la psicologia dell’artista rappresentava l’ispirazione inderogabile all’approfondimento dei temi religiosi. Giotto, Mantenga, Piero della Francesca, Michelangelo, Raffaello, Caravaggio sono mondi fantastici con accenti irriducibili ad un unico sentire religioso, eppure infinitamente emozionanti per lo spettatore. Qui si è consumata l’incomprensione tra Oriente ed Occidente. Il teologo ortodosso L. Ouspensky arriva alla conclusione che in Occidente non si venera l’icona, ma l’arte”4.

È tempo di capire finalmente, continua Ouspensky, e di riconoscere che il dogma della venerazione delle icone non si riferisce a una rappresentazione qualsiasi, e non riguarda soltanto il soggetto rappresentato; riguarda un’immagine precisa, definita dal suo contenuto e dalla sua destinazione, che corrisponde alle altre espressioni di fede; un’immagine che manifesta l’unità della fede, della vita e della creazione artistica. Soltanto una presa di coscienza del suo contenuto, alla luce dei concili ecumenici e della dottrina patristica, potrà contribuire a scoprire una via d’uscita dall’impasse in cui si trova l’arte religiosa in Occidente. Il contesto liturgico salvaguarda l’icona dal riduzionismo ad opera d’arte, come nel caso della Madonna Sistina, la quale, contro ogni aspettativa, è considerata immagine sacra anche dagli Ortodossi.

In effetti Raffaello ha voluto mostrare l’epifania umano-divina di Cristo. M. Putscher in Die Sixtinische Madonna scrive: “Nella Sistina Raffaello compie il passo innanzi decisivo: qui Maria è, come figura, del tutto umana… Tuttavia essa è radicalmente sottratta all’umano – e non perché cammina sulle nuvole, non perché la soglia sarebbe intransitabile, ma perché ella appare, librandosi sul globo terrestre, che grazie al suo apparire diviene a sua volta visibile. Detto altrimenti: la figura della Madonna non è indifferente, il trapasso dell’umano nel divino non è continuo, ma questa Madonna è in modo compiutamente definito le due cose insieme: divina e umana. Da questa prospettiva può forse essere chiarito cosa significhi “rappresentazione della Madonna come essenza mistica”: in questa forma la Madonna può solo apparire, non essere rappresentata”. Essa diventa epifania del Cristo nell’oggi della Chiesa.

Sul secondo fronte, ovvero sulla capacità della Sistina di parlare anche ai senza fede, come segnalava Nietzsche, è ora che si rifletta sul valore antropologico e culturale delle immagini sacre, che non hanno potere di suggestione solo per l’esperienza mistica cristiana, ma per l’intrinseca capacità di creare presenze sacrali. Autori come C. Severi e D. Freedberg denunciano questa debolezza della riflessione critica sull’arte. “In occidente si tende a liquidare la presenza nelle immagini del tipo di poteri un tempo detti divini, tanto più quando vi si percepisca il dispiego di capacità artistica e di abilità nella lavorazione dell’oggetto; ma ciò accade a causa dei nostri pregiudizi culturali a favore di quello che riteniamo sia un giudizio estetico disinteressato, e non perché il dio abbandoni abbandonato la sua immagine”5. Così C. Severi parla della “mnemotecnica rituale delle immagini” tradizionali.

La pittografia sarebbe una mnemotecnica in cui si organizzano le immagini, esattamente come in un testo si organizzano le parole, con il vantaggio di una ricchezza di dettagli. La sua forza è di attivare la memoria collettiva, di trasmettere i modelli culturali e di permettere la comunicazione di gruppo. Non è solo un meccanico ripetitivo e inerte di acquisizione di dati, ma è un’elaborazione di pensiero, una pratica di pensiero “tra percezione e memoria”6. In questa cornice mondo religioso e mondo laico devono ritrovare un dialogo fecondo sapendo che la religione fa parte dell’homo simbolicus e che la cultura ampia non può fare a meno dei miti e dei simboli religiosi tradizionali, di cui la Madonna Sistina rappresenta un archetipo eloquente.

La Mostra di Piacenza, organizzata dalla Diocesi di Piacenza e Bobbio e patrocinata dal Ministero dei beni culturali, dalla Regione Emilia Romagna e dal Comune di Piacenza, ha proposto questo incrocio di problematiche con un percorso interattivo di temi storici, artistici, commerciali e di costume, fino ad una palingenesi nello spazio absidale di San Sisto in cui l’adventus della Sistina dalla finestra dell’oltremondo epifanizza l’apokalupsis, ovvero la rivelazione cosmica della danza dell’universo.


1. P.A. SEQUERI, Ritrattazioni del simbolico. Logica dell’essere-performativo e teologia, Assisi, Cittadella Editrice, 2012, p. 41.
2. Ivi, p. 42.
3. Ivi, p.46.
4. L.OUSPENSKY, Postface, in Dieu dans l’art, Paris, Du Cerf, p. 337.
5. FREEDBERG, Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: reazioni e emozioni del pubblico, Torino, Einaudi, 2009, p. 112.
6. C.SEVERI, Il percorso e la voce. Un’antropologia della memoria, Torino, Einaudi, 2004, p.187.

VAN GOGH. I COLORI DELLA VITA

di Giuliana Albano

VanSi è da poco conclusa a Padova la mostra curata da Marco Goldin “Van Gogh. I colori della vita”. La mostra articolata in sette sezioni ha consentito di ripercorrere i momenti e i luoghi significativi della vita e dell’opera del pittore olandese: dagli inizi in Belgio, poi a Etten, all’Aia, a Nuenen in Olanda, quindi a Parigi, Arles, Saint-Rémy e infine Auvers. Luoghi importanti che hanno caratterizzato la ricca produzione dell’artista. I tanti disegni presenti nel percorso espositivo sono anticipazione della sua pittura, un registro fatto di minatori, seminatori, contadini, donne che lavorano, tutti abbozzati sulla carta. I primi inserimenti di colore respirano delle marine di Seurat e Signac e della Martinica di Gauguin, tutte opere presenti in mostra e che il pittore olandese ha potuto vedere a Parigi.

L’esistenza del pittore, segnata dalla sofferenza, ebbe certamente un peso nella sua produzione, artista “ribelle” agli schemi delle scuole e dei movimenti artistici. Gli uomini, gli ultimi, gli emarginati, gli oppressi popolano le sue opere, invisibili al mondo non sfuggono allo sguardo attento dell’artista. Vincent si immerge nel quotidiano, riesce attraverso l’arte a parlare del dolore, della fragilità, del limite, delle debolezze dell’uomo. È da questa prospettiva che è possibile studiare le sue opere e in particolare i suoi ritratti. Dipinti famosissimi come l’”Autoritratto con il cappello di feltro”, “Il seminatore”, i vari campi di grano, “Il signor Ginoux”, i vari paesaggi attorno al manicomio di Saint-Rémy e tantissimi altri presenti in mostra permettono di comprendere a pieno il percorso dell’artista. Il suo “Autoritratto con cappello di feltro grigio” del 1888 è un brillare di tinte che si espandono nel fondo dominato dal blu. Il particolare del cappello grigio sottolinea, in tanto splendente raggiare, la quotidianità ordinaria che diventa straordinaria. Il volto dell’artista rivela l’anima e soprattutto l’accettazione che il pittore rilegge in tutti i personaggi che ritrae. Una ricerca che lo impegna in tutta la sua esistenza.

Nel momento più acuto della sua malattia accetta di recarsi in una casa di cura. Avrà due stanze e dalle finestre osserverà lo scorcio di un giardino su cui spiccano i noti cipressi. Dinanzi ai dipinti di van Gogh lo spettatore rivive lo spettacolo della natura: il cielo è azzurro-verde, l’acqua blu reale, la terra color malva e le luci gialle. Giallo che esplode nel Seminatore, il giallo solare e radioso del grano, del cielo, del sole. L’uomo è nobile mentre svolge il suo lavoro, un seminatore che in una giornata splendente è semplicemente solo. La lezione di Millet è qui per Van Gogh fondamentale. Nei gesti e nei volti dei soggetti il dolore è reso in maniera impareggiabile, quel dolore che accompagna da sempre l’esistenza del pittore olandese. Il Seminatore è lui: Vincent Van Gogh.

Il pittore incontrerà prematuramente la morte in un caldo giorno d’estate del 1890 per le conseguenze di un tentativo di suicidio, ma lascerà alla cultura artistica una pista che sarà seguita datanti, in particolare Munch e gli espressionisti; Vincent lascerà una grande eredità quella di un artista che non si è mai piegato alle mode.