Isole e idoli
Nuoro, Museo MAN. Fino al 16 Novembre 2025
Quale legame esiste tra un ’isola e i suoi simulacri? È questo l’interrogativo da cui muove la mostra “Isole e idoli”, aperta al Man di Nuoro, a cura di Chiara Gatti e Stefano Giuliani; interrogativo esteso al come i maestri del Novecento in viaggio fra Mediterraneo e Mari del Sud l’abbiano assorbito e interpretato. Intanto uno sguardo penetrato nel tempo storico e vigilato nel profondo dell’esperienza estetica, mette a nudo una sorta di equivoco culturale, propriamente occidentale, relativo al rapporto tra la terra e il mare, e nello specifico tra l’isola e il mondo mobile che la circonda. «Gli stereotipi concettuali legati all’isola- scrive in catalogo Matteo Meschiari- sono un filtro oscurante: esclusione, separatezza, solitudine, naufragio, arroccamento, prigione, esilio, confino, sono solo i più diffusi, ma appena ci spostiamo in culture Ocean-centered come quella vichinga o quella polinesiana, ci rendiamo conto che l’Occidente è impastoiato in un paradigma coloniale geocentrico che dà sempre priorità alle terre, uno sguardo continentale che perpetua un modello geografico egemonico dove il mare è il vuoto. Per chi vive in mare, al contrario, l’acqua è il centro del mondo». C’è un altro aspetto interessante rilevato nella mostra e che focalizza il tema sul riscontro delle testimonianze artistiche arcaiche della Sardegna: «Non serve – scrive Chiara Gatti, direttrice del Man – il revisionismo postcoloniale per affermare che, nella loro statura ieratica, non vi sia nulla di primitivo, esotico, conturbante.
È astrazione allo stato puro. Sono dee madri, pietose e grandiose allo stesso tempo, come prefiche egizie, come offerenti etrusche, come ancelle rubate alla pittura vascolare greca». Sotto questo profilo non si può non riconoscere la straordinaria intuizione di artisti come Gauguin, Pechstein, Miró, Arp, Matisse (di cui sono presenti opere lungo il percorso espositivo), che nei loro viaggi, a cavallo tra Ottocento e Novecento, fecero dei contesti esotici e primitivi lo spazio di una sperimentazione innovativa dell’arte e della vita. Sicché la mostra è di fatto una proposta a più livelli: un discorso antropologico centrato sul senso della produzione arcaica, una parallela riflessione su isola e mito, un affondo infine sull’identità locale. Le opere esposte sono una settantina, provenienti in particolare dai musei della Bretagna, dal Louvre, dalla National Gallery Prague, dai musei sardi e da altre strutture e collezioni italiane e straniere. A sottolineare il carattere di ricerca dell’esposizione è lo stesso allestimento, curato dall’architetto Giovanni Maria Filindeu che ha previsto nelle sale un tappeto di sabbia, organizzando l’insieme delle opere in piccoli raggruppamenti tematici e in un assetto spaziale che richiama la configurazione di un arcipelago. Quattro infine gli ambiti di approfondimento simbolico inerenti alla terra sarda: il toro, la Dea Madre, il “capovolto” (rappresentazione dell’aldilà e del rovesciamento rituale), e le statue menhir antropomorfe, idoli scolpiti nella pietra, numerosi e peculiari nell’antica Ichnusa.
Giorgio Agnisola
Tre ospiti d’eccezione al Museo di Capodimonte
‘San Sebastiano curato dagli angeli’ di Pieter Paul Rubens, ‘Amor sacro e Amor profano’ di Giovanni Baglione e l’‘Annunciazione’ di Ludovico Carracci
Lo scorso mese di marzo 2025 Napoli ha accolto tre opere ospiti d’eccezione, il ‘San Sebastiano curato dagli angeli’ di Pieter Paul Rubens, ‘Amor sacro e Amor profano’ di Giovanni Baglione e l’‘Annunciazione’ di Ludovico Carracci perché potessero dialogare con quelle del patrimonio storico-artistico locale custodite dal Museo di Capodimonte. ‘San Sebastiano curato dagli angeli’ è uno dei capolavori delle Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma, custodito dalla Galleria Corsini. E’ un dipinto ad olio su tela (155,5 x 119,5 cm) realizzato dal pittore fiammingo Pieter Paul Rubens agli inizi del 1600 quando, poco più che ventenne, soggiornò in Italia ed ebbe modo di ampliare i suoi orizzonti figurativi studiando l’antico, i modelli di Michelangelo e Raffaello, ma guardando, anche, alla coeva produzione artistica del Carracci, di Caravaggio e di Federico Barocci. Tutti questi stimoli ricevuti, assieme alla sua formazione artistica fiamminga, sono ben visibili in quest’opera che tratta in maniera del tutto originale un soggetto sacro tra i più rappresentati nella storia dell’arte. Il santo, che campeggia al centro della scena legato ad un albero, mostra un corpo scolpito dalla luce che ne esalta le fattezze scultoree, di memoria classico-michelangiolesca, e le nudità a malapena celate da un drappo bianco che dal capo scende lateralmente sino all’inguine. La sua non è una postura fiera ed eroica, come nella famosa versione rinascimentale di Antonello da Messina, ma la sua posa scomposta, con la testa china su una spalla e un’espressione del volto carica di dolore, svelano tutta l’umana sofferenza del martirio subito.

Infatti qui il santo è rappresentato, nel momento successivo al primo martirio, con il corpo sanguinante, lì dove è stato trafitto dalle frecce, e mentre quattro angeli si affannano a soccorrerlo: due si preoccupano di medicare le sue piaghe e coprirle con un velo bianco, uno è ai suoi piedi mentre cerca di liberarlo dalle funi e un altro è intento ad estrargli una freccia dal petto. Di chiara matrice fiamminga è il dettaglio della luccicante armatura posta in bella mostra, sulla sinistra del dipinto, in riferimento al ruolo di militare romano rivestito dal Santo. Essa è resa con estrema concretezza da un accentuato chiaroscuro mentre, a fare da sfondo alla scena, si scorge un paesaggio e un cielo attraversato da delicate striature luminose e da un grande dinamismo di nuvole che ricordano quelle presenti in numerose opere di Tiziano, il pittore più amato da Rubens in Italia. Questa bellissima opera dell’artista fiammingo Pieter Paul Rubens, considerato il precursore di alcuni tratti caratteristici dell’arte barocca, allestita assieme ad altri quattro dipinti facenti già parte della collezione permanente del museo e che trattano lo stesso soggetto religioso, quello di Domenico Cresti, detto il Passignano, Bartolomeo Schedoni, Andrea Vaccaro e Mattia Preti, hanno offerto un vero e proprio compendio seicentesco sul tema. Insieme all’opera di Rubens è giunta a Capodimonte, dalla sede di Palazzo Barberini delle Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma, l’‘Amor sacro e Amor profano’ di Giovanni Baglione, raffinato pittore ed erudito biografo, noto anche per la rivalità col Caravaggio sfociata poi ad un processo per ingiurie. Questo bellissimo dipinto ad olio su tela (240 x 143 cm), realizzato nel 1602, mette in scena il trionfo dell’Amor sacro, rappresentato da un bellissimo angelo posto in piedi al centro della scena, che si rivolge con lo sguardo sereno e quasi serafico verso l’Amor profano mentre sta per scagliargli una freccia con la mano destra. Un sapiente gioco di luci ed ombre definisce bene il suo corpo elegante, parzialmente celato da un sontuoso corpetto militare, e il ricco piumaggio delle ali spiegate. L’Amor profano, invece, giace disteso e nudo in basso a destra del dipinto con le ali ripiegate sulla schiena e, mentre stringe un dardo con la mano sinistra e l’arco con la destra, consapevole della sua triste sorte, guarda spaventato l’Amor sacro che lo sovrasta. Nell’angolo a destra della tela, quasi schiacciato dall’angelo vincitore, vi è colui che rappresenta le insidie della vita terrena: un diavolo nelle vesti di un satiro che, rivolgendosi allo spettatore con uno sguardo terrorizzato e terrificante, urla per farsi notare. Questo dipinto tratta un tema che conobbe, agli inizi del ‘600, una notevole e fortunata diffusione ed è il tema morale della lotta tra vizi e virtù, derivato dalla ‘Psicomachia’ di Prudenzio, interpretato da Virgilio in ‘Omnis vincit Amor’ e infine codificato dal Petrarca. Questo capolavoro di Baglione torna a Napoli esattamente dopo 40 anni dalla mostra epocale ‘Caravaggio e il suo tempo’ firmata da Causa e Spinosa e il suo attuale prestito è frutto di un temporaneo scambio con la celeberrima opera ‘La Flagellazione’ di Caravaggio temporaneamente ospitata dal Palazzo Barberini a Roma. Il terzo ospite giunto a Napoli dalla Pinacoteca Nazionale di Bologna è l‘Annunciazione’, un olio su tela orizzontale realizzato da Ludovico Carracci nel 1584 e, questa volta, dialogante con altre due opere stabilmente esposte a Capodimonte, dello stesso periodo e sul medesimo fondamentale tema iconografico, una di Scipione Pulzone e l’altra di Francesco Curia. Così come solitamente questo tema iconografico racconta, la Vergine, mentre è intenta a leggere un libro di preghiere, è interrotta da un angelo che le porge un giglio e le annuncia il ‘Verbo’ incarnato in lei. La scena, rappresentata, utilizzando una rigorosa prospettiva centrale sottolineata dalle linee del pavimento, a griglia in cotto e pietra grigia, che convergono verso un unico punto di fuga, si svolge in quella che poteva essere una casa popolare di fine cinquecento, semplicemente arredata con un armadietto a due ante che si intravede sul fondo, nella penombra, e un letto posto sulla destra del dipinto.

La Vergine e l’Angelo sono raffigurati come due umili fanciulli: Maria è vestita con un accollato abito di colore rosso, ornato solamente dalla cintura, mentre il messaggero indossa una semplice tunica bianca e una stola rossa sacerdotale. Le ali ancora spiegate dell’Angelo ci dicono che è appena giunto sul luogo porgendo con la mano sinistra un lungo ramo di giglio fiorito, simbolo di purezza e castità, e indicando, con l’indice della mano destra rivolto verso l’alto, Colui che l’ha inviato. E, di fatto, il Padre non manca di manifestarsi al miracoloso evento attraverso la presenza di una colomba bianca, simbolo dello Spirito Santo, che, dalla finestra, irrompe nella scena accompagnata da un fascio di luce divina che raggiunge la Vergine e sembra generare l’aureola che le incorona il capo. Maria, tutta assorta nelle sue orazioni, con il volto serafico e gli occhi rivoti verso un libro di preghiere che regge con la mano sinistra, è genuflessa davanti ad un leggio-inginocchiatoio in legno su cui sono poggiati altri piccoli libri e da cui pende un semplice strumento di preghiera, una lunga collana in grani con una piccola croce. L’atmosfera è pacata e familiare, resa quasi tangibile dalla cesta di vimini con l’occorrente per il cucito e da ciò che appare sul fondo: oltre la finestra si intravede l’immagine, quasi sbiadita, di una città che, con le sue due torri, sembra essere proprio Bologna. Il dipinto venne commissionato a Ludovico Carracci per essere collocato in un piccolo ambiente, della chiesa di San Giorgio in Poggiale, utilizzato per l’educazione dottrinale dei giovani. Questo spiega l’immediatezza dell’opera creata per un preciso scopo didattico e, oltretutto risulta essere perfettamente in linea con i dettami della Controriforma elaborati dopo il Concilio di Trento. L’allestimento dell’opera ha mostrato come Scipione Pulzone e Francesco Curia, artisti coevi del Carracci, abbiano dato dello stesso tema una diversa interpretazione artistica e ciò a dimostrazione del fatto che ciascuno ha attinto dalla propria formazione, così come dalla propria sensibilità, per cercare di rappresentare, in modo del tutto personale, il ‘sacro’ nel ‘quotidiano’ del proprio vissuto.
Matilde Di Muro
“Aspicio sic sentio”: Vedere per sentire
Con Antonella Pagnotta ‘Arte e fede’ si incontrano nello splendido battistero paleocristiano di Santa Maria Maggiore a Nocera Superiore.
Nella splendida location del battistero paleocristiano di Santa Maria Maggiore a Nocera Superiore, l’artista Antonella Pagnotta, nel mese di marzo 2025, ha esposto un gruppo di opere accomunate dal titolo “Aspicio Sic Sentio”.
Eretto in epoca bizantina, nella seconda metà del VI secolo, questa è una delle costruzioni battesimali paleocristiane meglio conservate ed è detto “la rotonda” per la forma, circolare a doppio anello, della sua pianta simile a quella del mausoleo di Santa Costanza di Roma e a quella di molti edifici battesimali coevi orientali ed africani. Dal ritrovamento di parti di pavimento mosaicato si può dedurre che questo battistero, come per molti altri casi, sia stato costruito sui resti di un complesso termale romano e con il reimpiego di materiali di spoglio di templi ed edifici pubblici più antichi. Ne sono un esempio le 15 coppie di colonne, tutte diverse tra loro, che, mentre circondano l’ambiente centrale del fonte battesimale ottagonale, sostengono la cupola di copertura. Tanto altro ancora potremmo raccontare di questo monumento, identitario della fede cristiana, che, negli ultimi anni, offre un motivo in più per essere visitato attraverso l’organizzazione di eventi che intendono far diventare ‘questo’ un luogo di incontro tra architettura sacra e arte contemporanea così com’è avvenuto per le opere di Antonella Pagnotta. L’artista salernitana ha maturato, lungo il suo interessante percorso evolutivo, una pratica artistica ‘glocal’ da cui traspare il proprio humus culturale frutto di una mescolanza millenaria di diverse culture che si snodano tra oriente e occidente. Passando attraverso la sperimentazione di varie tecniche e l’utilizzo di diversi materiali, come il plexiglass, in campo scultoreo realizza opere componibili e ‘Micro-sculture’ e, di fatto, predilige “l’effetto intarsio” composto da uno o più soggetti presenti contemporaneamente ma che si riferiscono a livelli temporali diversi. E’ anche l’espressione performativa a suscitare l’interesse di Antonella Pagnotta che si interroga sull’importanza di acquisire una “consapevolezza corporea” che rivolge, in maniera personale, a sé stessa al punto da utilizzare, per le sue opere, il proprio corpo e la propria immagine che l’artista stessa definisce «come quel ponte attraverso il quale entrare ed uscire in e da ogni situazione, il soggetto e l’oggetto del teatro come finzione o realtà nello spettacolo della mia arte-vita dove l’arte e la vita si confondono».

All’interno del battistero paleocristiano di Santa Maria Maggiore, uno spazio tanto intriso di spiritualità e un tempo destinato all’iniziazione alla fede cristiana, Antonella Pagnotta ci ha dimostrato come sia possibile ristabilire, attraverso un linguaggio contemporaneo, una connessione tra luoghi come questo e il senso primigenio e dialogante dell’arte. In questa sua ricerca artistica ha mirato ad una rilettura dei temi cristiani e, in particolare, riflettendo sulla “Maternità di Maria” come via possibile per comprendere i concetti di “cura” ed “accudimento”. Antonella Pagnotta sceglie il proprio volto come ‘luogo’ del dialogo che, spersonalizzato, diviene uno ‘spazio altrui’, uno spazio interiore plurale, collettivo e, allo stesso tempo, intimo e personale entro cui poter rielaborare concetti e valori universali. Nello specifico, l’installazione “Aspicio Sic Sentio” è composta da tre gruppi di opere: “Il Sogno di Maria” come visione del dolore attraverso gli occhi di una donna, ma soprattutto di una madre; “I Sette Giorni della Creazione” che rievocano lo stupore nel contemplare la creazione dell’universo come l’opera più bella che ci sia e, in fine “Tri-Unità”, la vita che è possibile vivere in pienezza attraverso l’unità di spirito, anima e corpo. Il primo trittico di opere racconta di come Maria vive la crocifissione del Figlio attraverso: un “Prima”, un “Durante” e un “Dopo” quelle ore di oscurità vissute da Cristo. L’artista, come donna e madre dei nostri tempi, vuole cogliere questi tre momenti di dolore per poi esprimerli attraverso il suo volto: ‘guarda e sente’ con i suoi occhi il volto di Maria per sentire e mostrare il suo dolore. Nella prima opera la Madre piange per il dolore del Figlio e quel dolore diventa il ‘suo’ dolore, nella seconda il dolore si espande in ogni direzione e diventa ‘condivisione’ con il mondo, nella terza vi è la rappresentazione di un istante che racchiude in sé tre stati d’animo: la paura della sofferenza del corpo, la paura del distacco dal corpo, e l’infinito dono del ‘sé’. Le prime due opere sono realizzate con tecnica mista: lastre di vetro, incisione, stampa fotografica, smalto e colori ad olio, mentre la terza è una scultura dinamica posta su una base di legno di cedro e ottenuta dalla lavorazione della cartapesta e attraverso la doratura di fogli di ottone. Il secondo trittico di opere, “I Sette Giorni della Creazione”, invece, è un’istallazione composta da sette opere dipinte ad olio su plexiglas e poste su telai in legno, sette come i sette giorni che servirono a Dio per creare l’Universo con le acque, la vegetazione, il sole, la luna e le stelle, il mondo animale, l’uomo, e poi … il riposo. Antonella Pagnotta, attraverso le sue sette opere, diventa ‘lo sguardo’ che vuole cogliere l’origine dello stupore misto a meraviglia e la conoscenza dello spettacolo, che non avrà mai fine, della Creazione. Con “Tri-Unità” si chiude il ciclo di istallazioni di “Aspicio Sic Sentio”: tre unità scultoree realizzate attraverso la lavorazione, con tecnica mista, di ferro sottoposto ad invecchiamento e doratura, cartapesta e vetro inciso. Sono tre busti stilizzati che si ispirano alle sagome delle finestre classiche dell’architettura veneziana, a terra delineano le proprie ombre in negativo e rappresentano i tre varchi di accesso alla pienezza della vita. Su ognuno vi è un capo, con il volto dell’artista riprodotto in cartapesta, con sovrapposta una struttura, come un cappello, composta da piccole lastre in vetro inciso con dettagli sofisticati e disvelanti la pura essenza di Spirito, Anima e Corpo: ascesa, identità e sacralità. E dunque, attraverso queste opere di Antonella Pagnotta, bellezza, arte e storia si sono fuse dando vita ad una vera e propria esperienza immersiva per fare esperienza diretta dell’“Aspicio Sic Sentio”: soffermarsi a “guardare”, con animo dialogante, per poi “sentire” il significato profondo dell’arte.
Matilde Di Muro
Mimmo Jodice. Napoli metafisica
La città silenziosa si incrocia con lo sguardo metafisico di Giorgio de Chirico
Nell’ambito del programma culturale “Napoli contemporanea 2025” voluta dal sindaco Gaetano Manfredi, con l’intento di restituire alla vita culturale della città l’arte come presenza costante, si è aperta il 13 aprile la mostra Mimmo Jodice. Napoli Metafisica. L’evento è curato da Vincenzo Trione, consigliere del sindaco per l’arte contemporanea e l’attività museale e gode della organizzazione e comunicazione della casa editrice Electa, della collaborazione dello Studio Mimmo Jodice e della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico.
L’allestimento è ordinato in parti distinte che recuperano modelli del portato metafisico, cioè a dire: Lontananza, Archi, Colonne, Statue, Monumenti, Ombre, Apparizioni e Vuoti. In essa sono esposte più di cinquanta immagini fotografiche di Napoli, contenenti nutriti richiami metafisici. In questa sede i lavori di Jodice si incontrano con i dipinti di de Chirico, maestro dell’immagine metafisica, in un rimando continuo e dialogante.
Il programma “Napoli Contemporanea 2025” crea una relazione diretta con la città, attraverso la partecipazione di artisti di alto profilo, nazionali e internazionali, contribuendo, in tal modo, ad avviare processi di riqualificazione urbana di piazze, chiostri e strade della città. Ma non solo, anche riscoprendo le peculiarità dei luoghi storici attraverso lo strumento infallibile dell’arte prodotta dallo sguardo profondo degli artisti di volta in volta protagonisti. La mostra di Mimmo Jodice incarna le sue visioni metafisiche, che solo il bianco e nero sa rendere, con rappresentazioni di assenze che diventano essenze di qualcosa che non c’è; il mutamento di una città consumato negli anni trascorsi. Jodice è un testimone muto della Napoli di questi decenni. Le sue immagini testimoniano i cambiamenti urbanistici della città, tuttavia egli rende le sue visioni silenziose e meditative; quasi un percorso in un tempo sospeso e misterioso. Le fotografie di Mimmo Jodice non insegnano nulla, si fermano sulla soglia della ispirazione, facendo leva sul ricordo popolare evocato tra vecchie pietre e spazi oramai inutilizzati.
Lungo il percorso espositivo si ha la possibilità di apprezzare e raccogliere l’omaggio riconoscente di Mario Martone; il regista lo ha tratto da un suo documentario del 2023 dal titolo Un ritratto in movimento. Omaggio a Mimmo Jodice, che immerge lo spettatore alla conoscenza dell’opera dell’artista fotografo ma anche dell’uomo. La peculiarità del lavoro di Mimmo Jodice che nel contempo rappresenta la sua caratteristica potenza espressiva, si basa sulla sua singolare capacità di produrre visioni che vanno oltre le eccezioni temporali di una naturale resa di cronaca pura e semplice.
Napoli, Castel Nuovo – Cappella Palatina
Mimmo Jodice. Napoli Metafisica, dal 13 aprile al 1settembre 2025, dal lunedì al sabato dalle ore 10,30 alle 18,00, domenica chiuso.
Testo e foto di Giovanni Porta
“Luce di Speranza”: quando l’arte svela l’umana ricerca dell’Oltre.
Claudio Mario Feruglio – Napoli, Complesso Monumentale di S. Maria la Nova
A Napoli, presso la Chiesa di Santa Maria la Nova, lo scorso aprile, il pittore friulano Claudio Mario Feruglio ha esposto una raccolta di 8 opere col titolo “Luce di Speranza”.
Guardando le creazioni di questo straordinario artista figurativo si è immediatamente colpiti dalla bellezza dei suoi paesaggi e dall’uso straordinariamente ricco ed espressionistico dei colori attraverso cui riesce a parlare di “cammino” e di “viaggio”, quello che non necessita di alcun spostamento fisico, ma, piuttosto, di un incedere interiore, lento, intimo e profondamente personale.
Di fatto Feruglio, che nasce e vive tutt’ora ad Udine, mette a frutto una grande abilità pittorica che, a partire dalle sue origini accademiche, ha avuto modo, in cinquant’anni di attività, di perfezionare, raffinare e personalizzare.
Formatosi all’Accademia di Belle Arti a Venezia, lungo il suo percorso artistico partecipa attivamente alla vita artistica friulana e nazionale, ad eventi espositivi importanti in mostre personali e collettive, in Italia e all’estero, presso gallerie private ed istituzioni pubbliche, oltre a vantare il conseguimento di numerosi premi.
Sin da subito mostra una particolare propensione all’arte come strumento di introspezione usando
pennelli e colori come mezzo per ‘andare oltre’ un fare artistico a esclusivo servizio della bellezza e per attuare una personale attività di “ricerca”, la ricerca di una vita e “per la Vita”.
I suoi paesaggi, ispirati, certo, dai luoghi del suo vissuto, le terre friulane, sembrano appartenere ad un mondo ultraterreno e allo stesso tempo ci sembrano familiari perché, sono ‘altre’ e ‘alte’ visioni di luoghi interiori che possono essere abitati da tutti.
Le sue viste sono, come si dice in gergo fotografico, “a volo d’uccello” e lo spettatore guardandole fa esperienza di ‘tras-parenza’ e appartenenza: sembra davvero invitato a sorvolare mondi immensi e solitari, abitando cieli straordinariamente vivi e dinamici che occupano la maggior parte della tela.
In un’atmosfera dominata dal silenzio, una luce sonora si fa presente: talvolta irrompe in maniera tuonante e in altre sembra farsi dolcemente spazio, tra nuvole o cieli notturni, come a voler diffondere una gentile melodia che disvela una terra per lo più piatta e vagamente inospitale.
Non ci sono strutture né architetture, tantomeno presenze se non quella di un piccolo uomo solitario, un viandante, definito da un semplice tratto scuro, che sembra essere sorpreso nel suo errante cammino.
Chi è quell’uomo? E’ l’artista, certo, ma può essere ognuno di noi che, a caccia di ‘senso’, vaga alla ricerca del proprio “ànemos”, di quel soffio vitale che ci appartiene perché ci è stato donato. Eppure, talvolta ci sembra di averlo smarrito e per ritrovarlo vale la pena intraprendere quel viaggio, necessariamente solitario, che ci porta in percorsi spesso tortuosi e difficili da percorrere, accompagnati da inutili ostilità, dubbi, paure, false certezze tanto da farci sentire come navi senza approdo. Le opere di Feruglio non ci lasciano indifferenti, soprattutto perché sono aperte alla vita e cariche di speranza, la speranza che quelle strade tormentare, difficili, ma non impossibili, siano rischiarate da quella luce-guida, quella luce di verità, instradante e confortante, che si fa spazio tra le tenebre.
E’ evidente che queste creazioni sono evocative di un bisogno interiore dell’artista che si nutre di una profonda fede cristiana alla ricerca continua e, talvolta, felice scoperta dell’Oltre ma, al di là di ogni confessione religiosa o possibile ‘credenza’, i suoi percorsi possono incontrare le necessità di chiunque si senta smarrito in una ‘notte’ troppo lunga. Sì perché giorno e notte, luce e tenebra, vita e morte, ci appartengono, “si” appartengono e si fronteggiano da sempre ed oggi, che il mondo sembra preferire il buio di inauditi e dilaganti conflitti, più che mai.
Le opere raccolte in questa mostra dal titolo “Luce di Speranza”, 8 dipinti di grande formato (90×150 cm) realizzati, con pittura acrilica su tela, tra il 2005 e il 2020, sono state ammirate lungo la grande navata della chiesa di Santa Maria la Nova, come in un ideale percorso spirituale di meditazione e in perfetto dialogo tra loro, con il visitatore e con gli storici luoghi in cui sono state inserite.
La chiesa, le cui origini risalgono XIII secolo, dopo aver subito, nel tempo, notevoli trasformazioni oggi sfoggia una meravigliosa veste barocco-cinquecentesca pur conservando evidenti tracce delle diverse sensibilità e degli stili artistici che si sono susseguiti nei secoli.
Essa fa parte di un monumentale complesso conventuale in cui, dal 2006, è ospitato il Museo ARCA di Arte Religiosa Contemporanea, diretto dal prof. Giuseppe Reale, e che conserva importanti testimonianze religiose dell’arte contemporanea, dal 1949 ai giorni nostri, realizzate da artisti di rilievo nazionale ed internazionale.
I ‘paesaggi dell’anima’ del pittore friulano Claudio Mario Feruglio sono, pertanto, entrati in perfetta armonia con questo prestigioso contesto ed il tema della mostra, “Luce di Speranza”, è un chiaro richiamo all’attuale “Giubileo della Speranza” indetto da Papa Francesco per la Chiesa cattolica tutta. Il rito giubilare, che ha radici profonde risalenti all’Antico Testamento, nasce come tempo ‘speciale’ di libertà e riconciliazione, in cui i debiti venivano annullati, gli schiavi liberati e le terre restituite ai loro proprietari. Radici lontane, dunque, di un qualcosa che nasce per dare speranza e sollievo alle sofferenze delle umanità di ogni tempo e della nostra più che mai.
Ed è proprio di luce e speranza che parlano le opere di Feruglio con una particolare profondità capace di raggiungere l’animo umano perché è dall’umana sensibilità che nascono.
Matilde Di Muro








