B Lancuba
Bruno Lancuba
L’autore Bruno Lancuba offre una lettura approfondita del significato del viaggio nella sua dimensione antropologica, quale esperienza fondante e fondamentale dell’uomo, e teologica, poiché nel viaggio Dio si rivela e cammina con l’umanità. Da Abramo a Mosè fino a Cristo, insieme a Maria sua madre, la Bibbia è, attraverso i tanti libri e le vicende del popolo ebraico, storia del viaggio di salvezza dell’umanità che svela l’uomo a sé stesso e il senso stesso dell’esistenza.
The author Bruno Lacuba offers an in-depth reading of the meaning of the journey in its anthropological dimension as a founding and fundamental experience of man, and theological since in the journey of God He reveals himself and walks with humanity. From Abraham to Moses to Christ together with Mary his Mother, the Bible is through the many books and events of the Jewish people, the history of the journey of salvation of humanity that reveals man to himself and the very meaning of existence.
“Ma solo facendo un viaggio si capirà perché lo si doveva fare;
e se qualche volta è difficile partire
perché le abitudini, il dovere, gli impegni, la mancanza di tempo,
il dubbio, le aspettative delle altre persone
sembrano ostacoli insormontabili,
non dimentichiamo che c’è solo una cosa peggiore del viaggiare,
ed è il non viaggiare affatto”

(Oscar Wilde)

1. Il viaggio

«La sfida che il nostro tempo ci pone è trovare un viaggio che sia degno del nostro cuore e della nostra anima» (Seth Godin).

Il viaggio da sempre accompagna la vita dell’uomo sia come esplorazione di mondi esterni sconosciuti, sia come esplorazione del mondo interiore alla ricerca di sé stesso e del significato della propria vita, come si vedrà con la vicenda di Abramo. In tutti gli ambiti di conoscenza e di vita è certamente una delle esperienze fondanti e fondamentali dell’uomo.

Gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, di tutte le culture e condizioni, si sono sempre messi in viaggio per i più svariati motivi: sia per procacciarsi il cibo, sia per sfuggire a pericoli, sia perché incuriositi dall’ignoto, che spinge a abbandonare le sicurezze, a spogliarsi dei pesi, lasciando campo libero alle proprie passioni, alla propria libertà, all’enigma della vita. Ci si inoltra in territori stranieri e inesplorati, rompendo gli ormeggi della routine, rifuggendo la quotidianità, rischiando anche la vita, sia con il valicare montagne altissime sia con il solcare oceani sconfinati, per inoltrarsi verso l’ignoto.

Il tema del viaggio dunque è rilevante e universalmente riconosciuto, caratterizza l’uomo a tal punto da assurgere ad archetipo della vita non solo nel suo fluire nel tempo (“nel mezzo del cammin di nostra vita”, Dante), verso la morte (considerata appunto l’“ultimo viaggio”): si parla infatti del viaggio della vita; ma anche nel suo movimento nello spazio: si parla di un cammino, di un itinerario di un percorso attraverso mondi, esperienze e culture diversi che contribuiscono a plasmare la propria identità, liberandosi dal superfluo e acquisendo ciò che appare sempre più essenziale al vivere.

Sentiero verso Santiago
Foto di Alfredo La Malfa

Il viaggio inevitabilmente favorisce il cambiamento, gli incontri trasformano, come bene evidenzia per esempio il protagonista de Il posto delle fragole Isak Borg di Ingmar Bergman, il quale appunto da un viaggio intrapreso è indotto in qualche modo a rileggere la sua vita e a darle un nuovo senso. Il viaggio apre sempre orizzonti nuovi, arricchisce con nuove esperienze, induce a cambiare la personale prospettiva del mondo, a mutare le stesse aspettative. Esso, a contatto con il nuovo, facilita il mutamento della percezione di sé, dell’altro e del mondo, instillando a volte dei dubbi nelle certezze acquisite, aiutando però sempre a realizzare in maniera più consapevole e arricchita le molteplici relazioni umane e con Dio, perché anche la fede è un viaggio, un pellegrinaggio, un cammino, un’esperienza, prima ancora che un sistema di verità.

Chiaramente dipende anche da come si affronta il viaggio, da che viaggiatore si è. «Secondo un antico aforisma arabo, esistono tre tipi di viaggiatori. C’è chi procede solo con i piedi: è il mercante, i cui viaggi sono sempre e solo un transito per luoghi, con un’altra finalità in mente. C’è poi chi avanza per strade e città con gli occhi: desidera scoprire e sapere, sostare davanti ad antichi monumenti, ammirare opere d’arte e paesaggi. Costui è il sapiente, o, più modestamente, diremmo oggi, il turista. Infine, c’è chi viaggia con il cuore, alla ricerca della “perla segreta”: ebbene, costui è il pellegrino di ogni tempo e religione.

Il pellegrinaggio è un atto simbolico universale, che intreccia in sé dimensioni mistiche ed esistenziali, ricerca e certezza, grazia salvifica e quiete psichica, sostenuto da quella tensione interiore verso l’Oltre e l’Altro, verso il mistero sacro che è nell’anima umana e nella divinità. In verità, il viaggio attraverso i paesi del mondo è per l’uomo sempre anche un viaggio simbolico: ovunque vada è la propria interiorità che sta esplorando, è solo viaggiando che darà voce ad una parte di sé che chiede di venir fuori.
Colui che viaggia ha a bordo solo se stesso…, perché da se stessi non si può fuggire… Conducendoci tra rovine ed eccellenze, tra spazi sconfinati e miniature pregiate, tra incontri ed abbandoni, il viaggio testimonia da dove e verso cosa l’esistenza è guidata: nel risuonare dei nostri modi e ritmi di viaggiare potremo scoprire elementi alleati ed ostili, recuperare come quid prezioso anche ciò che appare insignificante, un gesto, una parola, un incontro… Ciò alimenterà il nostro immaginario, espanderà un poco la nostra coscienza mitica, feconderà ulteriormente l’humanitas (G. Fornasari).

Il viaggio, questo camminare per via, dunque, può essere geografico, materiale, ma può diventare anche metafora della vita interiore, con le sue diverse tappe di crescita. Può facilmente accadere che la stessa crescita interiore è favorita da uno spostamento geografico, al punto che i luoghi nuovi diventano motivi e stimoli per il cambiamento: a livello religioso si pensi ai pellegrinaggi, occasione di crescita spirituale.

2. Arte

L’homo viator lo è in tutte le sue esperienze, non solo a livello religioso. La vita in tutte le sue dimensioni viene vista come la rotta dell’uomo che lascia la costa per navigare nel mare aperto del tempo e dello spazio. Poeti, filosofi, scrittori, artisti, hanno usato la metafora del viaggio per indicare la vita dell’uomo, il suo agire nel mondo. Il tema del viaggio infatti è sempre ricorrente a livello letterario, basti pensare all’Ulisse omerico o all’Ulisse di Joyce, ma anche a livello artistico, nei film, opere musicali, quadri, sculture. Chi può dimenticare la straordinaria ed emblematica immagine di Charlot che, con la sua andatura dondolante, si avvia su una strada senza fine?

Uno degli aspetti che più aiuta il viaggio dell’uomo e aiuta a viaggiare, anche a livello spirituale e teologico, è l’arte. L’arte permette di compiere un viaggio nell’universo esteriore e interiore, conducendo l’uomo alla scoperta, alla conoscenza, verso mete e orizzonti inesplorati misteriosi e profondissimi. L’arte ha sempre favorito il viaggio nel mondo esterno e interiore, per conoscere e arricchirsi, ma ha anche favorito il viaggio all’interno dell’arte stessa, un mondo meraviglioso e drammatico insieme, come meravigliosa e drammatica è la vita, sempre fonte di ispirazione, insieme alla Bibbia questo «grande codice» (N. Frye), che per l’arte è stato una miniera inesauribile e che a sua volta l’arte ha aiutato a comprendere.

Gli artisti hanno compiuto oltre che un viaggio geografico anche un viaggio con l’immaginazione, aprendo a noi finestre da dove poter osservare la profondità dell’essere, la bellezza nascosta, l’incanto e la drammaticità della realtà attraverso il loro sguardo e la loro intuizione e ispirazione, offrendo a noi la possibilità di viaggiare attraverso il tempo e lo spazio sia nell’arte e sia attraverso l’arte, cogliendo orizzonti inesplorati, in maniera onnicomprensiva, niente escludendo, con un occhio particolare lungo la storia al mondo religioso e spirituale.

Tutti i campi dell’arte dalla pittura alla scultura, dalla musica alla danza, dalla poesia alla prosa, dal cinema al teatro, hanno attinto alla Scrittura, lasciandosi ispirare anche riguardo al tema del viaggio, religiosamente visto come pellegrinaggio, a sua volta come fonte inesauribile di ispirazione, pur senza pretesa di essere esaustivi, al punto da poter dire che l’arte stessa «non è un risultato ma un viaggio» (Seth Godin), senza fine, che emoziona il viaggiatore che lo compie ed emoziona chi lo contempla e ne gode la bellezza, la profondità, il significato. Insieme ai campi dell’arte si può affermare che tutti i campi della vita dell’uomo hanno attinto al tema del viaggio. E condividendo poi con gli altri quanto sperimentato ogni viaggio prepara e favorisce sempre nuove partenze, sempre nuovi viaggi, necessari all’uomo. Si torna sempre a contemplare la bellezza intravista durante il viaggio, convinti della preziosità di quanto incontrato, non dubitando mai del valore della bellezza e non saziandosene mai, ma appassionandosi sempre di più. «Non mi cercheresti se non mi avessi già trovato» dice Dio a Pascal. Si cerca perché si è già trovato. Così è per il viaggio: si parte perché si è già partiti, fosse anche solo con l’immaginazione.

3. La via è la meta

Metafora potente ed universale quella del «viaggio», che tiene insieme l’esperienza umana e anche quella religiosa, non solo delle tre religioni monoteiste (ebraismo, cristianesimo e islamismo). Secondo le prime parole dell’antica saggezza cinese del Tao (da cui deriva il «taoismo»), che significa «via»: «la via è la meta». Infatti le prime parole di Lao-Tsu (570-590 ca.), nella sua opera «Il libro del tao», sono appunto tao tsu, vale a dire «la via è la meta». La vera meta della vita, in altre parole è di trovare la via (per noi cristiani la via della vita, la via della salvezza), e poi quella di camminare su questa via, di percorrerla. La meta non è dunque distinta dalla via che ad essa conduce.

Opera dell’uomo è scoprire il moto che lo abita e orientarlo, cogliendo l’occasione preziosa del viaggio della vita che non deve essere visto solo come distanza che separa dalla meta, perché la via non è solo distanza ma come dice un mistico sufi è anche sospiro di Dio: «E da questo sospiro è nata la strada che porta a te» (Galal al Din Rumi). Quindi il viaggio va vissuto bene perché è in sé stesso prezioso, senza lasciarselo sfuggire nell’attesa della meta. Dice Sant’Agostino: «Come sogliono cantare i viandanti, canta e cammina; cantando, consolati della fatica, ma non amare la pigrizia. Canta e cammina! Cosa vuol dire “cammina”? Avanza, avanza nel bene!… Canta e cammina!».

Dal punto di vista religioso, secondo quanto afferma E. Jünger “Ogni viaggio è un pellegrinaggio”. Ciò evidenzia una dimensione antropologica,

“la vita rappresentata dalla metafora del viaggio che l’uomo intraprende verso una meta lontana e misteriosa… Poeti e saggisti, filosofi e storici, artisti e teologi hanno descritto spesso l’esistenza umana come un lungo e tormentato viaggio, segnato da itinerari imprevedibili e da numerose prove. Quando si nasce si inizia un viaggio meraviglioso, che per alcuni diventa avventuroso, per altri di piacere, per molti di affari, per tutti di sacrificio e di un’autentica ricerca del senso. Come accade per i lunghi viaggi, nel percorso si fanno delle soste, necessarie per riprendere le forze” (G. De Virgilio).

I viandanti, religiosamente i pellegrini, sono i protagonisti di questa avventura, che è itinerante, nel tempo e nello spazio per raggiungere la meta desiderata. Mettersi in viaggio è esperienza esistenziale, decisione di uscire dalle proprie sicurezze, di abbandonare quello che è stato, per andare verso un’altra terra, animati dal desiderio di raggiungere la meta: una vera e propria conquista. “Il desiderio che accompagna il cammino peregrinante nasce in ultima analisi dalla ricerca dell’Assoluto e dall’invocazione verso Dio” (G. De Virgilio).
Vera fatica dell’essere umano è il cammino in tutte le sue valenze. Oltre che nudo, l’uomo nasce anche nomade; è questa un’impronta che rimane sempre nella sua profondità, è una traccia indelebile. Come già insistentemente affermato, il cammino-viaggio è metafora della vita e l’homo viator è dentro il cuore di ogni uomo. Un cuore inquieto per dirla con Sant’Agostino, che non si accontenta di nessuna meta raggiunta in questo orizzonte terreno: «tu ci hai fatti per te e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te». Il viaggio dell’uomo diventa così desiderio d’eterno, libertà dall’esilio, verso la sua patria definitiva.

Il viaggio non è semplicemente scelto, ma scoperto, ossia si constata di essere già in viaggio, si scopre di essere pellegrini, bisognosi di seguire il moto che ci abita dentro dandogli corso e corpo, consapevoli che «camminando s’apre cammino» (Arturo Paoli), anche senza conoscere la meta; il viaggio è già e sempre all’opera, è propriamente vocazione, ti prende rendendoti a volte come quei viaggiatori che anche «senza sapere perché, dicono sempre: andiamo!» (Charles Baudelaire).

4. Orizzonte biblico-teologico

Anche alla base del pellegrinaggio nella Bibbia c’è l’idea del “viaggio”, di un percorso da compiere, solitamente indicato da Dio. Per l’uomo biblico andare in pellegrinaggio significa affrontare per gradi un passaggio dal tempo e dallo spazio “profano” a quello sacralmente qualificato (cf F. L. Cardini). Nella decisione di iniziare un pellegrinaggio c’è la volontà nel credente di affidare la propria esistenza al Signore. Nella Scrittura l’idea del pellegrinaggio è come un filo rosso che tutta l’attraversa; essa percorre le storie di personaggi, di comunità, di vicende, quasi ininterrottamente. Israele è visto come un popolo peregrinante. La Bibbia stessa, di fatto, è un viaggio:

“Brani narrativi, composizioni salmiche, eventi miracolosi, elaborazioni legislative, racconti edificanti, lotte e guerre, insegnamenti sapienziali, aspetti morali, discorsi escatologici, preghiere e apologhi sono abilmente collocati lungo la narrazione della storia del cammino del popolo” (G. De Virgilio).

La tradizione ebraica è fatta propria dal cristianesimo sia pur rielaborata, rivista alla luce dell’evento e del messaggio di Gesù. Nei Vangeli si trovano riferimenti ai pellegrinaggi al tempio che la comunità ebraica compiva per adempiere la legge, come anche la famiglia d Gesù (cf Lc 2,41s). Esistevano raccolte di canti con cui pregare mentre si saliva al Tempio (i Salmi delle ascensioni). Lo stesso Gesù sale a Gerusalemme per le festività ebraiche (Gv 2,13; 5,1; 7,14; 10,22s; 12,12) e soprattutto per portare a compimento il mistero della salvezza, quindi viaggi geografici dal grande significato teologico. Il viaggio, il cammino, il peregrinare assurge pertanto a chiave teologica di lettura e rilettura della missione di Gesù, rappresentando una dimensione peculiare della novità cristologica, come sottolineano gli studiosi: il discendere del Figlio nella storia (Lc 1,34-38); in suo incarnarsi e venire ad abitare in mezzo a noi (cf Gv 1,1-18), il camminare per le strade degli uomini recando loro la buona novella del regno (Lc 4,18.43), la chiamata rivolta ai discepoli ad andare dietro a lui (Lc 5,1-11) sulla strada del suo pellegrinaggio (Lc 5,11), predicando il vangelo (Lc 9,1-6; 10,1-20); visita le “case degli uomini”, prima di fare l’ingresso nella Città Santa e nel “Tempio”.

Infine l’ascensione al Padre costituisce l’ultimo tratto del pellegrinaggio di Gesù (Ef 4,9-10).
La Bibbia è il libro del cammino e dei grandi camminatori, da Adamo ad Abramo, dal popolo di Israele a Mosè, da Elia a Gesù, da Maria agli Apostoli, dai discepoli a Paolo. Un simile procedere si individua sia nell’AT (cf Abramo o anche il popolo di Israele, Elia etc.) sia nei Vangeli (cf il viaggio di Gesù verso Gerusalemme, Maria nel suo peregrinare, gli Apostoli inviati in missione: “andate”) e nella letteratura del Nuovo Testamento (cf i percorsi negli Atti, soprattutto i viaggi di Paolo), testi che guarderemo più da vicino, senza essere esaustivi (cosa impossibile in un articolo), in maniera particolare l’Arameo errante e il popolo eletto, oltre che Gesù.

4.1 Dio

Ma prima di tutti questi vi è Dio stesso. Nel cammino dell’uomo e dei popoli si inserisce quello personale di Dio alla ricerca dell’uomo: «uomo dove sei?» (Genesi 3,9), e all’uomo da Dio viene proposto di camminare insieme con lui, come percorso/proposta significativa della condizione umana: «Uomo, ti è stato insegnato (da Dio) ciò che è buono e ciò che il Signore richiede da te: praticare la giustizia, amare la benignità, camminare umilmente con il tuo Dio» (Michea 6,8). Camminare con lui è camminare come lui, partecipando alla vita divina estesa all’umanità, agendo rispetto all’uomo e al mondo come Dio, ossia amando, per questo il salmista invoca: «mostrami, Signore, la tua via, perché nella tua verità io cammini» (Salmo 86/85).

Il Dio che la Bibbia ci svela infatti è un viandante il quale non manifesta di essere tanto attaccato ai luoghi, quanto alle persone. Sarà chiamato il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe (Es 3,6.15.16), il Dio del popolo d’Israele più che il Dio di un luogo preciso. «Non è il Dio che si va a visitare in alcuni santuari famosi, nei luoghi di pellegrinaggio conosciuti. Lui, il Dio dei patriarchi, è il Dio pellegrino, non il Dio dei pellegrinaggi» (J.-L. Ska). Egli ama viaggiare. Si fa viandante perché vuole accompagnare l’uomo viandante sulle strade di questo mondo. Il vero Dio è quello che si incontra sulle strade della vita, il Dio nomade santifica il viaggio e i viandanti. La verità biblica più che identificarsi con una serie di definizioni è frutto di un percorso: «seguire Dio è vedere Dio» (Gregorio di Nissa). «Io camminerò con voi» (cfr. Es 33,14) afferma Jahweh. E Mosè sostiene:

«Se tu non camminerai con noi, non farci salire qui. Come si saprà dunque che ho trovato grazia ai tuoi occhi, io e il tuo popolo, se non nel fatto che tu cammini con noi? Così saremo distinti, io e il tuo popolo, da tutti i popoli che sono sulla terra» (Esodo 33,15-16).

Dio, dunque, proprio nel suo essere viandante con il popolo pellegrino, non solo manifesta la sua benevolenza ma costituisce in tal modo anche il segno distintivo del suo popolo rispetto agli altri popoli. Egli «conduce per il giusto cammino» (Salmo 23), e ciò è motivo di gioia e di speranza per noi.

Le esperienze di amarezze, sofferenze, solitudini, incomprensioni, «valle oscura», che la Bibbia così numerose racconta, sono realtà da cui nessuna esistenza è immune; la Scrittura però invita anche a “non lasciarsi cadere le braccia” (cf Sofonia 3,16), a non disperare perché Dio non è impassibile ed immobile, ma conduce sempre per il giusto cammino, per cui essenzialmente non si manca di nulla (cf Salmo 23), pertanto si può continuare ad avanzare. Dio non attende semplicemente il suo popolo o il singolo alla fine del viaggio per esprimere il giudizio. Egli invece viene a condividere la condizione precaria di chiunque in qualsiasi situazione cammina per i sentieri della vita a volte inospitali e pericolosi. Dio non è dunque solo la meta da raggiungere alla fine del nostro viaggio nella storia, ma egli partecipa al viaggio, fa parte del viaggio stesso, che così diventa il luogo privilegiato della sua presenza. E’ il viaggio dunque il luogo della presenza di Dio e della nostra esperienza di Lui, che in qualche modo richiama quanto detto: la via è la meta.

Allo stesso modo il Dio dell’Esodo non è solo lo scopo ultimo della marcia di Israele nel deserto ma anche la guida di Israele nella sua marcia; così come Gesù Cristo è anche la «Via» da seguire non solo la meta finale da raggiungere nel nostro cammino.

Il Dio eterno accetta di abitare nell’effimero e nel transitorio, il Dio onnipotente non disdegna di tenere compagnia alla fragilità, debolezza e limite umani, il Dio vivente estende la sua azione e signoria anche nei deserti della vita che sono «paese arido e di voragini, paese brullo e di ombra di morte, paese dove nessuno passa e dove nessuno abita» (cfr. Geremia 2,6). Nemmeno in questi paesi Dio lascia soli nel cammino: «Ed ecco io sono con te e ti custodirò dovunque andrai e poi ti farò ritornare in questo paese, perché non ti abbandonerò…» (Genesi 28,15). Si proceda dunque sereni nel viaggio della vita sapendo chi è Colui nel quale si è riposto fiducia.

4.2 Abramo

Il viaggio è sicuramente il sigillo delle tre religioni monoteistiche (ebraismo, cristianesimo, islamismo), tre fedi che affondano le loro radici proprio in un “Arameo errante”, come dice una delle professioni di fede di Israele:

“Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande… gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù… Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione… ci fece uscire dall’Egitto… e ci condusse in questo luogo…” (Deuteronomio 26,5-9).

L’arameo errante è Abramo, che inizia la sua vicenda con Dio intraprendendo un viaggio. Sono circa quattro miliardi le persone (cristiani, i mussulmani e i fratelli ebrei) che considerano quest’uomo come modello della fede, un pellegrino della fede, un viandante, “un arameo errante” appunto. Il suo è un viaggio molto importante nell’AT: Abramo riceve una chiamata da parte di Dio, il quale gli dice: “esci dalla tua terra e va”. La sua, pertanto, è una vocazione esodale, una vocazione ad uscire e mettersi in viaggio. Abramo intraprende un cammino che parte da terre conosciute verso luoghi sconosciuti, che il Signore indicherà.

Il Signore disse ad Abram: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”. Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore, e con lui partì Lot. Abram aveva settantacinque anni quando lasciò Carran (Genesi 12,1-4).

Dio disse ad Abramo: Vattene dal tuo paese. E’ un comando a lasciare la propria terra. E Abramo si mise in viaggio. Comincia così (capitolo 12 del libro di Genesi) la storia della fede: con la chiamata di Abramo, che è una chiamata a lasciare il luogo, la terra e mettersi in viaggio. In fondo, Abramo non parte da solo, si porta dietro qualche affetto, persone, si porta dietro greggi, ma non il luogo, quello deve lasciarlo, deve andarsene dal suo paese. Chiunque sia partito e sia andato lontano, sa quanto costi dover lasciare un luogo. Abramo è chiamato ad abbandonare, a dire addio: la fede ha la potenza di far partire, di sradicare una persona dalle sue radici territoriali, culturali, per proiettarla verso un luogo che non sa. Dove va Abramo? Non lo sa. Si fida di Dio e parte, andando verso una terra sconosciuta, che Dio avrebbe indicato. Dice Ebrei 11,8: «Partì, senza sapere dove andava». La fede è questo essere sradicati dall’habitat naturale, da una cornice di sicurezza verso l’ignoto. Il suo cammino sta davanti.

Per il cristianesimo Dio si è raccontato nella storia secondo la capacità dell’uomo di capirlo. Questo divenire della comprensione dell’uomo nei riguardi di Dio si chiama “Storia della salvezza”, storia antica ma nella quale Dio continua a parlare oggi. E quando Dio parla mette in movimento, come mise in movimento Abramo.

Fino a quel momento Abramo aveva seguito la volontà del suo padre umano. D’ora in poi egli avrà davanti a sé solo il Signore. Una condizione fondamentale per seguire il Signore è il taglio con i legami affettivi se impediscono di camminare liberamente per la via da lui indicata. L’aveva capito bene Francesco d’Assisi, quando lasciò i suoi vestiti al padre.

Tutto inizia ascoltando una parola. Abramo è presentato come il vero uomo nuovo che ascolta la parola di Dio e si mette subito in movimento senza chiedere alcuna spiegazione. Si tratta di buttarsi verso un avvenire sconosciuto, ma che lo attrae tanto da indurlo a partire.
«Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore» (Genesi 12,4). Abramo parte confidando solo sulla parola di Dio. Egli non era certo giovane quando partì da Carran. Aveva settantacinque anni.

«Alla tua discendenza io darò questo paese» (Genesi 12,7). La terra sarà posseduta dalla sua discendenza, non da lui. Ma questo basta ad Abramo. Egli si abbandona ai tempi di Dio, non pretendendo che tutto si realizzi durante la sua esistenza. Solo il Signore è il suo sicuro referente. Ad Abramo non resta altro che andare verso l’ignoto, lasciandosi guidare ciecamente da Dio. Ciò significa che Abramo troverà in Dio la sua costante protezione. Di fronte alla richiesta e alle promesse divine, Abramo non parla ma si mette in viaggio portando con sé il nipote Lot (cf Genesi 12,4). In tal modo Abramo è presentato come il modello di una fede radicale nella parola di Dio. Gli altari, eretti in una terra abitata da popolazioni straniere, sono piccoli segni di una fede che resiste alla prova e sa attendere che Dio attui le promesse. Nella risposta silenziosa del patriarca appaiono i connotati essenziali di un’autentica esperienza di fede: ascolto, abbandono delle proprie sicurezze, fiducia, disponibilità a mettersi in cammino. Il suo atteggiamento non ha nulla però di una sottomissione cieca e meccanica.

L’obbedienza a un comando preciso è una metafora per indicare la sua piena partecipazione a un progetto divino che lo supera, che forse non capisce fino in fondo, ma che dà un senso alle sue scelte di vita. Questo progetto consiste nella nascita di una nuova umanità il cui collante non sarà il potere ma l’amore. L’obbedienza incondizionata a questo progetto dovrà essere la caratteristica fondamentale del popolo che da lui nascerà. In questa prospettiva appare chiaro che non solo per Abramo, ma anche per tutti gli israeliti l’elezione ha senso unicamente se comporta la ricerca di un modo di essere che diventi esempio e modello per tutta l’umanità (cf A. Aiello).

Una considerazione sulla chiamata di Abramo. Un giorno Abramo sente la chiamata misteriosa di una divinità senza nome e senza volto che gli dice: “Leck Leckà”, tradotto solitamente nelle Bibbie con “Esci dalla tua terra”. Ma la traduzione corretta è ben più sottile e orienta meglio. Infatti Leck Leckà letteralmente non significa “esci dalla tua terra” ma: “Vai a te stesso, vai per te, va’ verso di te, va’ verso te stesso” o, ancora “Vai, a tuo vantaggio”. Vai, esci, mettiti in viaggio. Verso dove? Verso te stesso: è questo un esodo, un’uscita impegnativa, coinvolgente, sovente sofferta, ma è un viaggio vitale per raggiungere la libertà (cf la lettura artistica di Marc Chagal dell’incontro di Abramo con i tre angeli, accostata al capolavoro della Trinità di A. Rublev, in un articolo di Maria Gloria Riva).

Il movimento che fa Abramo non è di lasciare anzitutto un luogo, la sua terra, ma di entrare in sé stesso, un viaggio che lo conduce a sé stesso, per interrogarsi su ciò che egli è diventato. Contrariamente agli idoli il Dio misterioso non chiede di uscire fuori, verso l’idolo, ma di entrare dentro per scoprire il duplice volto: quello di Dio e quello dell’uomo. Direbbe Sant’Agostino: «non andar fuori, ritorna in te stesso perché nell’interiorità dell’uomo abita la verità».

Abramo partirà in questo viaggio misterioso che lo porterà a scoprire i propri limiti e l’immenso volto del Dio che lo invita all’essenziale. Il suo non è il gesto impulsivo del giovane, ma quello maturo e sofferto dell’adulto. Abramo diventa il primo cercatore di Dio.

La fede di Abramo è presentata non come qualcosa di perfetto fin dall’inizio ma piuttosto come un atteggiamento interiore che si sviluppa e giunge a maturazione attraverso difficoltà e prove, cadute e riprese coraggiose, in un viaggio che non ha mai fine.

Il Dio di Abramo invita ad andare a sé stessi, a guardarsi dentro, a sollevare lo sguardo su quell’oceano immenso che è la propria interiorità, ad allargare lo spazio dell’essenziale, abbandonando i troppi idoli che ingombrano il cuore e la vita; allora il Dio di Abramo vuole gli uomini in cammino e li rendi viandanti, viaggiatori sempre anche quando pensano di essere arrivati: non è ancora la fermata altri viaggi aspettano te dall’istinto che hai… è da questo lo sai che riparte il cammino ognuno di noi ha la sua strada da fare prendi un respiro ma poi tu non smettere di camminare anche se sembreranno più lunghe che mai certe dure salite del cuore, cantava Eros Ramazzotti.

E’ un viaggio lungo, un viaggio tortuoso, un viaggio persino pericoloso, l’uomo infatti quando più sa tanto più rischia di essere tormentato (cf Qoelet), perché scoprire il vaso di pandora può riservare sorprese non sempre liete.

4.3 Israele

Il comando dato ad Abramo di lasciare la propria terra e mettersi in cammino, «ricorda chiaramente il comando della partenza all’inizio del libro dell’Esodo. Anche la storia del popolo inizia con un comando di partire per una terra sconosciuta» (C. Westermann), condotto da un altro grande viaggiatore che è Mosè, le cui vicende sono legate alla nascita di Israele come popolo dell’alleanza con Dio, proprio durante un viaggio: l’esodo dall’Egitto attraverso il mare e poi il deserto, dove Dio si rivela padre sollecito per le necessità del popolo e si lega ad esso con il dono della Legge, le dieci parole, i dieci comandamenti. Il libro che narra queste vicende è il libro dell’Esodo, che significa «uscita», «viaggio via da». Il termine hodos significa «cammino» e «esodo» indica un «cammino di uscita»: «movimento verso la terra promessa e verso la libertà» (G. Ravasi). Il ricordo di questo viaggio sarà sempre impresso nel cuore degli Israeliti, ridestando continuamente il loro amore, che spesso è assopito e altrettanto spesso è infedele. “Ti ricorderai di tutta la via per la quale il Signore tuo Dio ti ha fatto camminare” (Deuteronomio 8,2). Israele è un popolo che è stato “fatto uscire” dall’Egitto, un atto che sfuma in un cammino, in un passaggio, nella pasqua appunto: questa è l’identità più profonda del popolo di Dio.

Ed infatti si è in presenza di un evento fondante, quello della Pasqua, che ci riporta a un’uscita, quella dall’Egitto, a un passaggio, quello attraverso il Mar Rosso, a un viaggio, quello attraverso il deserto per giungere alla terra promessa. Il cuore dell’Antico Testamento è il libro dell’Esodo, che narra le vicende di un popolo in uscita dalla terra della schiavitù (Egitto) alla terra della libertà (Terra Promessa), attraverso un viaggio caratterizzato da varie peripezie (Deserto). L’Esodo ci narra un Dio che è il Dio della libertà. Il commino/viaggio verso la libertà, l’uscita, l’esodo è da percorrere come una regione accidentata, ma con una caratterista fondamentale, l’apertura al futuro, mai la chiusura nel passato: cioè la terra promessa; e ogni promessa orienta al domani, al futuro, verso il suo adempimento, compimento.

L’esodo è una categoria che svela la qualità dinamica della fede: è movimento verso la terra promessa, viaggio verso la libertà, per cui nessuna nostalgia di perdute età dell’oro, nessuna nostalgia di paradisi perduti. La nostra patria non è un «indietro», ma un «avanti», perché qui «siamo forestieri, come tutti i nostri padri» (1 Cr 29,15), e pellegrini.

Niente staticità: l’esodo è il canto del viaggio con una meta, è il canto della vita con uno scopo (Nietzsche dice che: «chi ha un “perché” nella vita, può sopportare quasi ogni “come”»), è il canto della terra promessa, è viaggio verso una terra da raggiungere, che non sta dietro le spalle, ma davanti. L’esodo è come la radice viva da cui nasce l’albero ramificato della storia di Israele (cf G. Ravasi). Ogni qualvolta si è schiavi, nomadi, pellegrini e esuli, l’esodo prospetta un orizzonte di libertà. Nelle vicende dell’esodo d’Israele ci sono le povere vicende di tutti credenti prima militanti e poi delusi [e quante delusioni!], con la bocca piena di parole di libertà e il cuore pesante di piccole schiavitù, con l’illusione della terra promessa a portata di mano e la realtà del deserto ancora sconfinato che ci sta davanti. Ma c’è anche l’affermazione che il deserto, oltre che essere popolato di fiere selvatiche, di serpenti e scorpioni, si riempie improvvisamente di segni di benedizione, di angeli (cfr Mc 1: e angeli lo servivano); c’è la scoperta di un’esistenza quotidiana interamente avvolta da un manto di meravigliosa benevolenza (cf A. Rizzi). L’esodo è un pungolo all’amore per la libertà e la terra, all’impegno nel viaggio. L’esodo è come una pietra preziosa, unica nella sua perfezione ma molteplice nelle sue sfaccettature (cf A. Aiello)

A livello esistenziale il primo esodo, la prima uscita, il primo viaggio vitale e doloroso insieme è l’uscita dal grembo materno. Da quel momento inizia il viaggio della vita e nella vita inizia un viaggio che è un’uscita da sé stessi per andare verso l’altro; l’uomo è fatto non per rimanere chiuso in sé stesso ma per uscire dalla propria realtà, dalle proprie chiusure per andare incontro all’altro, il prossimo, e all’Alto, Dio, instaurando una relazione.

La vita è un cammino continuo di uscita, un esodo dalla schiavitù alla libertà, dalla servitù al servizio , un viaggio impegnativo. Oltre che uscita verso l’altro e verso l’Alto, è uscita verso il creato, un viaggio nella natura nella quale si è collocati e verso la quale si hanno delle responsabilità: «affinché lo coltivasse e lo custodisse» (Genesi 2,15).

Infine ultimo esodo, ultima uscita, ultimo viaggio, come già accennato, è quello da questa vita verso la vita eterna, verso la terra della libertà piena, verso la terra promessa. Uscire dal grembo di questa storia per entrare nella vita. Quindi come la nascita anche la morte è un esodo, è viaggio ancora una volta sofferto come la nascita, ma ancora una volta per la vita.

L’esodo ci dice anche dove siamo diretti, verso una terra dove scorre latte e miele, la terra promessa, ma se è promessa, vuol dire che non è ancora realtà, si realizzerà pienamente, ma solo nel futuro, anche se già incomincio a pregustarla. Il cammino verso questa terra della libertà è in salita, cammino faticoso, cammino sofferto, che richiede fatica, impegno, passione, desiderio di raggiungere la meta. Un viaggio attraverso il deserto, le difficoltà, un viaggio sofferto ma per una meta di libertà: per aspera ad astra.
L’esodo è una categoria importante per leggere il proprio cammino di vita, come è accaduto con il popolo Ebreo, e come è accaduto con Gesù. Anche Gesù è stato esule in Egitto, come narra Matteo: «dall’Egitto ho chiamato mio figlio» (Osea 11,1; cf Matteo 2,15); anche Gesù è chiamato a compiere il suo esodo, attraverso il deserto: 40 giorni, tentato da Satana come narrano i Vangeli; Luca 9,51 parla del «suo esodo che doveva compiersi in Gerusalemme», cioè l’esodo da questo mondo al Padre, da questa vita alla vita eterna; esodo come per Gesù anche per noi.

Nell’esodo dalla terra, nel viaggio della vita non ci sono piste già battute, ma sentieri inesplorati di cui ognuno è pioniere. L’esodo è un cammino, si esce, si lascia, si parte anche in fretta; non c’è il tempo di far lievitare il pane, che deve essere mangiato azzimo, e con erbe amare per dire come è amara la condizione di schiavitù, da cui uscire.

4.4 Gesù

Nell’Antico come nel Nuovo Testamento «via», da cui poi «viaggio», è una metafora centrale. La via di Dio alla ricerca dell’uomo ha avuto il suo approdo in Gesù, il quale costituisce anche l’inizio del ritorno dell’uomo a Dio; il viaggio di Dio verso l’uomo diventa il viaggio dell’uomo verso Dio; l’esodo di Dio verso l’uomo in Gesù diventa l’esodo dell’uomo verso Dio. Gesù è «la via, la verità e la vita» (Giovanni 14,6), «la via nuova e vivente inaugurata per noi» (Ebrei 10,20). L’uomo può andare verso Dio perché Dio è sceso verso l’uomo; non possiamo seguire altra via se non quella indicata, anzi tracciata da Dio: Gesù Cristo. E la speranza nasce sul mondo. Troviamo nel Vangelo sovente Gesù in viaggio, per via, in cammino, dove vive i suoi incontri, dove annuncia l’evangelo, dove compie azioni di guarigioni o di misericordia, e anche nelle parabole e nei racconti sovente si è per via (cf il Buon Samaritano Lc 10,25-37 dove, come spesso avviene «il viaggio del samaritano svela due “viaggi”: si fa vicino al malcapitato, si muove verso sé stesso. Scopre l’uomo e si scopre uomo, cammina su una strada tracciata e ne scopre un’altra. La strada per lui è incontro non solo passaggio» (A. Ariberti).

Troviamo Gesù in cammino dunque per compiere la sua missione. All’inizio del Vangelo secondo Marco c’è un passo che mostra come Gesù non si fermi mai, perché la sua vocazione lo tiene necessariamente in costante cammino.

«Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: ‘Tutti ti cercano!’. Egli disse loro: ‘Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!’. E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demoni» (Mc 1,35-39).

Un’ansia missionaria lo pervade e lo sospinge, verso tante località e tante persone. Così Gesù risponde ad alcuni che lo avvertono che Erode lo sta cercando per ucciderlo:

«Andate a dire a quella volpe: ‘Ecco, io scaccio demòni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno la mia opera è compiuta. Però è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io prosegua nel cammino, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme’» (Lc 13,32-33).

Gesù però vuole che i suoi discepoli non compiano solo viaggi geografici ma anche esistenziali, all’interno di sé stessi, come testimonia l’incontro con due dei discepoli di Giovanni il Battista.

Sul frontone del tempio di Delfi (V sec. a. C.) si trova scritto: “Conosci te stesso”. Gesù ci aiuta con una domanda posta ai discepoli, ma che interpella anche tutti: «che cercate?» (Giovanni 1,38). Questa domanda ci interroga su cosa abita il nostro cuore, cosa cerchiamo nella nostra vita, quali le attese, quali gli aneliti, quali le aspirazioni profonde. Il “conosci te stesso”, ti chiede di rientrare in te per capire cosa ti abita dentro: a livello di pensieri, di sentimenti, di voleri.

Ciò è interessante: il metodo di Gesù non è anzitutto offrire soluzioni, definizioni, dogmi, bensì porre una domanda «che ti porta dentro, a interrogarti dentro, dentro i tuoi desideri più veri, più profondi: che cercate? Chi cerchi? E un verbo che racchiude tutta la vita. Tutto il vangelo, tutta la vita. Dall’inizio alla fine del vangelo, dall’inizio alla fine della vita, questo verbo “cercare”. Fare della vita una ricerca insonne, mai conclusa» (A. Casati). La verità la può scoprire solo chi la cerca, solo chi si mette in cammino, chi inizia il viaggio, solo chi si lascia interpellare dalla vita, solo chi ha il cuore inquieto e libero da pregiudizi, abitudini, false sicurezze date da falsi idoli, solo chi è per via. Gesù ci riporta dentro di noi, ci fa interrogare sui nostri desideri, le nostre aspirazione, le nostre attese: tu che cosa cerchi? Chi cerchi? «A chi corriamo dietro, a quali modelli, a quali ideali, a quali valori, a quali esperienze?» (B. Secondin). Interroga il tuo cuore e te lo dirà. I veri uomini di fede ti inquietano, fungono da pungolo, come le parole dei saggi (cfr. Qoelet 12,11).

Alla domanda di Gesù “che cercate?”, la risposta apparentemente è strana, ma affascinante e intrigante: Dove dimori?” (Giovanni 1,38). Cercavano lui, chiedono della sua dimora, come se dicessero: «Ci interessi tu, ci interessa stare un po’ con te, ci interessa vederti da vicino, ci interessa dove abiti con i tuoi pensieri, con le tue emozioni, con il tuo cuore, con i tuoi sogni» (A. Casati).

«Venite e vedrete» (Giovanni 1,39): Gesù non dà una spiegazione, propone un’esperienza, un viaggio, propone la sequela come un cammino di maturazione della fede, un progredire nella conoscenza, fino al punto da compiere la professione di ciò che si è compreso dell’uomo di Nazareth e del suo mistero. Essere discepoli per l’evangelista è sempre un percorso che porta alla verità, alla scoperta della verità, che poi viene affermata e annunciata. Essere discepoli è un andare dietro, un seguire lui, Gesù. Siamo alla presenza di un nuovo inizio nella loro vita, una sorta di punto di non ritorno del loro cammino, impresso indelebilmente nella loro mente, tempo forte, tempo favorevole, ossatura che da significato, che regge, il tessuto connettivo.

Nutriamo il desiderio di cercare il Signore e di trovarlo nella nostra vita, perché? Nutriamo il desiderio di metterci continuamente in viaggio, perché? Perché abbiamo il desiderio di vivere! E lui non è estraneo alla vita. Egli deve dar gusto della vita! Sapore della vita! Egli è oltre che Via e Verità anche Vita (cf Giovanni 14,6). E noi abbiamo appunto il desiderio di vivere. Importante la dimensione del desiderio, come oggi sottolinea l’antropologia.

Il viaggio inizia con una separazione, ci impone di lasciare qualcuno o qualcosa, ci invita a spezzare ciò che ci blocca. E che cosa può spingerci a spezzare dei legami e partire se non un desiderio, il quale non si presenta mai totalmente chiaro, ma un insieme di incertezza e determinazione; il desiderio ci sospinge efficacemente, sia pure in maniera ambigua. Come abbiamo visto «è un po’ l’esperienza di Abramo, invitato da Dio a lasciare la casa di suo padre e a mettersi in cammino verso una meta incerta, eppure è proprio lì che la vita di Abramo finalmente comincia» (G. Piccolo). Il grande viaggio della vita ci chiama continuamente a separarci da noi stessi per seguire quel desiderio, quella inquietudine che ci abita, la stessa che ha condotto i Magi nel loro lungo viaggio alla ricerca di Gesù (Matteo 2,1-12).

Tutti e tre i vangeli sinottici presentano un viaggio di Gesù dalla Galilea a Gerusalemme, ma nessuno come il Vangelo di Luca presenta un viaggio di Gesù verso Gerusalemme, che abbraccia un’ampia sessione (9,51-19,28), praticamente il 40% dell’intero vangelo (cf V. Fusco), sintetizzando tutto il ministero pubblico di Gesù in un unico passaggio da nord, Galilea, a sud, Gerusalemme. A tal punto è importane il tema del viaggio di Gesù da caratterizzare la struttura stessa del vangelo; anche la conclusione del Vangelo lucano presenta l’incontro di Gesù per via con i discepoli di Emmaus.

4.5 Maria

Da Gesù non può essere dissociata Maria nel suo viaggio di vita: «La troviamo sempre in cammino, da un punto all’altro della Palestina, con uno sconfinamento finanche all’estero», afferma don Tonino Bello. La troviamo in cammino dietro a Gesù, la Via, fino alla croce e oltre. Già fin dall’inizio del Vangelo infatti Luca narra che Maria, dopo l’annuncio dell’angelo, si mette in viaggio da Nazaret verso i monti di Giuda, per far visita a sua cugina Elisabetta; ed è un cammino celere «raggiunse in fretta una città di Giuda» (Luca 1,39), dettato dall’intuizione del bisogno e dalla premura di aiutare l’anziana parente al sesto mese di attesa di Giovanni Battista. Maria si mette in viaggio portando e donando Gesù. Dopo tre mesi si mette in cammino per far ritorno a casa sua a Nazaret. Da Nazaret, quando stanno per compiersi i giorni del parto, si mette in viaggio per Betlemme in ottemperanza a un decreto di Cesare Augusto riguardante il censimento di tutta la Giudea. A Betlemme, in una grotta, nasce Gesù in adempimento a quanto annunciato dalle Scritture. Da qui, la troviamo in cammino verso Gerusalemme per la presentazione di Gesù al tempio, «come prescrive la Legge di Mosè» (Luca 2,24).

Fin dall’inizio l’ombra della morte si estende sul cammino di Gesù, poiché Erode cerca il bambino per ucciderlo; così Maria insieme con Giuseppe e Gesù è costretta a mettersi in viaggio “clandestinamente” verso l’Egitto, come tanti oggi, per sfuggire agli Erodi di turno, clandestinamente cercando possibilità di vita altrove, anche in mezzo a noi. E come già il popolo ebreo anch’essa fa ritorno in Giudea, e poi per timore di Archelao, figlio di Erode, di nuovo a Nazaret, per adempiere quanto detto dai profeti: «Sarà chiamato Nazareno» (Matteo 2,23); Dio, attraverso le libere e non di rado deprecabili scelte dell’uomo, pazientemente tesse la trama della salvezza.

Ogni anno in pellegrinaggio pasquale a Gerusalemme, quando Gesù ha 12 anni la troviamo ancora in viaggio. La si trova ancora tra la folla, ad incontrare il Figlio, «errante per i villaggi della Galilea» (T. Bello). Infine ritroviamo Maria sugli itinerari del Calvario, sui sentieri della via crucis, fino ai piedi della croce. Realmente Maria è l’icona del camminare, dell’essere in viaggio. La troviamo sempre in cammino insieme e dietro a Gesù, e per giunta spesso in salita. L’insistenza del vangelo sul cammino spesso in salita allude alla vita cristiana come un andare dietro a Gesù, con «la peregrinazione terrena di Maria che simbolizza tutta la fatica di un esigente itinerario spirituale» (T. Bello). Il cammino di Maria non è pertanto una passeggiata romantica nei boschi del sentimento religioso, ma un impegno costante, sempre in relazione a Gesù, sempre in ascolto della sua parola, sempre in adempimento della volontà del Padre manifestatasi nel Figlio.

4.6 la Chiesa

Il tema del viaggio è importante non solo per Gesù ma anche per i discepoli. Lo stesso mandato missionario che Gesù consegna ai discepoli è un invito ad andare, a mettersi in cammino, a mettersi in viaggio: «andate» (Matteo 28,19). Ma nell’atteggiamento di Gesù c’è una pedagogia del viaggio, riflessa nelle consegne che Gesù fa ai suoi discepoli prima di inviarli in missione, caratteristiche del pellegrinaggio: «camminare verso una meta che è prima di tutto radicata dentro sé stessi» (G. Piccolo).

Il viaggio non si compie da soli: «li mando a due a due avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi» (Luca 10). È un’esperienza di Chiesa. Durante il viaggio ci si confronta, si condivide, si discerne, si decide insieme, superando i momenti di scoraggiamento e di sfiducia che il viaggio presenta; si parte liberi da ciò che ordinariamente appesantisce il cammino, ma anche liberi da quelle fiere (cf Mc 1) che incontriamo nel nostro deserto interiore o esteriore lungo il cammino; liberi secondo lo stile di vita di Gesù, un mendicante che cammina con gli uomini, in viaggio nella vita.

«Il pellegrinaggio è la chiamata alla vita che inevitabilmente siamo continuamente spinti a percorrere. Sottrarsi al cammino è in qualche modo sottrarsi alla vita… Il viaggio è una buona occasione per liberarsi, per spogliarsi della rabbia e del lamento, per prendere fiato rispetto alle relazioni che ci consumano senza generare.

Evitare di prendere e di portare con sé diventa anche l’occasione per imparare a chiedere, per lasciare che la vita si prenda cura di me, per scoprire una provvidenza segretamente nascosta nell’ordine delle cose, significa non comportarsi da padroni rispetto alla vita, vuol dire non credersi autosufficienti, ma imparare a non bastare a sé stessi, vuol dire ricordarsi di creare uno spazio, una mancanza, dentro cui l’altro possa essere continuamente ospitato

Il pellegrinaggio di cui parla il Vangelo non è una favola a lieto fine: il Gesù di Marco ricorda anche che il rifiuto è sempre in agguato. Durante il viaggio si incontra chi non è disposto a farci spazio nella sua vita, chi ha paura di condividere, chi è stato ferito o ingannato dai pellegrini precedenti, chi si sente messo in questione da quell’invito al cambiamento che di per sé il pellegrino suggerisce. Il viaggio ci allena ad accogliere i fallimenti e le porte chiuse che inevitabilmente fanno parte della vita

Alla fine di quel pellegrinaggio, alla fine di ogni pellegrinaggio, ci sarà un tempo di rilettura: i discepoli si raccoglieranno intorno a Gesù e impareranno a guardare ciò che è avvenuto, sfogliando l’album dei ricordi che hanno conservato nella memoria del cuore. A volte invece siamo indotti a passare da un’esperienza all’altra senza fermarci a raccogliere il frutto di quello che abbiamo vissuto. Preferiamo archiviare traguardi piuttosto che scendere nella profondità dell’esperienza. E invece deve esserci un tempo, alla fine del viaggio, in cui finalmente ci si ferma a rileggere l’esperienza per poi ripartire» (G. Piccolo).

La vita infatti è un continuo partire e ripartire. E il primo a vivere la vita come pellegrinaggio è Gesù stesso, l’Inviato del Padre, colui che ha compiuto il più lungo pellegrinaggio, quello verso l’umanità. Ciò rivela anche perché Gesù conosce bene la pedagogia del viaggio e la usa con i suoi discepoli.

Il tema del viaggio caratterizza infatti la vita della comunità credente. Quando all’interno di Israele nascerà quella particolare comunità che è la chiesa, essa si definirà come la “via”. Dagli Atti degli Apostoli si sa che i cristiani, prima ancora di essere chiamati con questo nome, furono designati anche come «quelli della via», ossia quelli che appartengono alla via (At 9,2 testo greco). Essi erano seguaci di una “Via” prima che di una dottrina o insegnamento, e quindi erano un popolo in cammino, fedeli in questo al Signore Gesù che aveva detto di sé: “Io sono la via” (Giovanni 14,6), precisando anche la sua condizione itinerante: “Le volpi hanno le loro tane, gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’Uomo non ha dove posare il capo” (Matteo 8,20). Essendo Gesù la Via non meraviglia che proprio l’immagine della via designi il cristianesimo e che i cristiani sono designati come coloro che appartengono alla via, cioè che condividono il cammino, il progetto verso l’umanità, la vicenda stessa di Gesù, il quale «patì per voi, lasciandovi un esempio perché ne seguiate le orme» (1 Pietro 2,21). L’identità del seguace di Gesù poi sarà ulteriormente precisata dalla prima lettera di Pietro che si rivolgerà ai cristiani chiamandoli “stranieri e pellegrini” (1 Pietro 2,11); anche un testo cristiano tra i più antichi, parlerà dei cristiani in questi termini: «Abitano una loro patria ma come stranieri… ogni terra straniera è patria per loro, e ogni patria è terra straniera» (A Diogneto 5,5).

Sempre negli Atti degli Apostoli, l’autore, l’evangelista Luca, presenta diversi viaggi. Pertanto evidentemente il tema del viaggio era confacente alla struttura mentale dell’evangelista. Importanti in maniera particolare, negli Atti degli apostoli, tra gli altri i viaggi missionari di Paolo. Si conoscono tanti resoconti dei viaggi di tanti esploratori, navigatori, filosofi, soldati, tuttavia nessuno è come Paolo, il quale viaggia per la Parola, consapevole di doverla annunciare a tempo opportuno e inopportuno: egli dà tutto sé stesso per l’annuncio del Vangelo, dedicandovi completamente la sua vita. In realtà gli “Atti di Apostoli”, più che raccontare di tutti gli Apostoli, racconta il viaggiare, prima di Pietro e poi esclusivamente di Paolo, che per Luca non è apostolo, non essendo uno dei Dodici, ma a cui dedica uno spazio considerevole, in pratica da Atti 13 in poi (sono 16 capitoli su 28) il racconto è dedicato a Paolo, ossia ad un uomo che l’autore del testo non qualifica come “apostolo”, ma chiaramente Paolo è stato un viaggiatore instancabile, il più grande missionario di tutti i tempi.

5. Conclusione

A conclusione si può affermare che qualsiasi realtà della nostra vita è dinamica, non è mai statica: una fede, una amicizia, una coniugalità, una maternità/paternità etc. Cioè la nostra vita razionale, affettiva, volitiva è dinamica, mai statica. E il viaggio dice questo dinamismo, questo movimento. E anche la vita spirituale è dinamica, è un cammino: ma è un cammino di ascesa in alto verso il Divino oppure di discesa nelle profondità di sé stessi? Salire in alto o scendere nelle profondità? Entrambe le cose; l’immagine che l’AT ci presenta è quella della scala, che serve sia per salire che per scendere. Forse, tuttavia, il viaggio più difficile non è quello verso Dio, ma nelle profondità di sé stesso. Accogliamo pertanto, come conclusione, questi inviti provenienti da mondi culturali e religiosi diversi.

“Oh uomo, viaggia da te stesso in te stesso, perché da simile viaggio la terra diventa purissimo oro” (Rubin, mistico dell’Islam).
“La vita altro non è che un pellegrinaggio verso il luogo del cuore” (Olivier Clement), per capire qual è il desiderio sorgivo dentro di te e poi seguirlo.