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Kika Bohr

Cosa vuol dire essere stranieri? Invero, intorno al termine c’è una certa confusione, di significati, di riferimenti, di interpretazioni. Che significa, ad esempio, dire semplicemente: “Viene da un altro luogo…”; dovremmo precisare da quale luogo! Se siamo a Milano, chi viene da Varese è straniero? – Eh no! è un “varesotto” che magari non sa guidare (così si diceva un tempo a Milano) ma non è straniero! E se viene dalla Puglia? Be’, un tempo se eri pugliese, a Milano venivi chiamato “terrone”; ora non più, fortunatamente. Ma uno svizzero? cosa sarà rispetto a un milanese? Certo, sarà straniero, ma anche no: gli svizzeri a Milano si conoscono bene; chi non è andato a Chiasso a prendere il cioccolato, le sigarette, il brodo Knorr? Nei riguardi degli svizzeri persistono alcuni pregiudizi: un po’ di invidia e ammirazione per la supposta ricchezza e una bonaria presa in giro per la puntigliosità. I francesi, i tedeschi sono ormai dell’Unione Europea, sono dei “rompiscatole” che vogliono sempre comandare, ma pure loro li conosciamo bene. I veri stranieri sono quelli che non conosciamo e che quindi fanno paura, i neri soprattutto perché si individuano più facilmente, gli arabi perché potrebbero essere terroristi, gli slavi, oddio sono violenti, e i cinesi troppo misteriosi… Gli Americani invece già ci sembra di conoscerli, ai tassisti di Roma fanno simpatia, danno ottime mance, sono sempre contenti e sorridenti… I sud-americani?… be’, chi non ha avuto qualche parente emigrato in Sudamerica…

I veri stranieri in realtà sono i poveri. Nei loro riguardi è come se non si avesse voglia di conoscerli, con l’ansia che ci prende temendo che ci chiedano qualcosa del nostro bene/benessere e magari ci derubino. Siamo invece incuriositi dal maliano che dorme su un cartone sotto la nostra casa. Chissà cosa potrebbe raccontarci…
Siamo pieni di contraddizioni: andiamo da turisti in vacanza a vedere terre lontane ma non sappiamo guardare chi, qui da noi, arriva proprio da quelle terre.

Parecchi anni fa all’università, in un afoso pomeriggio di luglio, aspettando di parlare con qualche professore, una compagna mi aveva chiesto a bruciapelo: “ma tu sei straniera?” e io, ovviamente mentendo un po’ (le cose sono sempre complicate), le avevo risposto “No, semplicemente in questo momento mi sento ‘estranea’ ”; e lei – che forse non aveva ancora studiato Albert Camus – aveva insistito: “dunque sei straniera!” L’Étranger di Camus è sì lo straniero, l’individuo che non è originario del paese in cui si trova ma è anche l’estraneo, quello che non vuole o non riesce a partecipare alla vita comune, a integrarsi, per vari motivi. Immaginate quale sia stato il mio stupore, alcuni anni dopo, quando mia figlia diede dello straniero a un suo compagno di classe di seconda elementare che le dava fastidio. Le sembrava un insulto meritato!

“Wir kommen aus Schlampampen”diceva mio nonno Roland, scultore austriaco, e noi nipotini non osavamo chiedere che Paese fosse questo “Schlampampen”. Allusione alla Russia in cui era cresciuto? Allo “Schlamm”, il fango e quindi all’argilla che lui utilizzava per modellare o forse agli artisti che c’erano stati nella nostra famiglia? O alle vere o presunte “mesalliances” delle generazioni passate e di cui si favoleggiava?
Spartaco Veglia, ex attore di Giorgio Strehler, e mio mentore per la prima mostra antologica, invitava sempre i suoi corsisti a considerare un’altra persona come “quello che non ti somiglia”. È l’accettazione della diversità come risorsa. L’apertura verso il mondo, verso l’alterità è a mio parere fondamentale per tutti, ma quasi necessaria per gli artisti.

D’altra parte ognuno di noi vorrebbe essere accettato per sé stesso: l’artista per quello che fa, lo straniero/l’uomo per quello che è – e questo non capita sempre.

Tra tutti gli slogan banali, stupidi, cattivi o razzisti che da vari anni circolano qui a Milano due slogan si differenziano: 1) “Da vicino nessuno è normale”, slogan dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini e 2) “Nel mio paese nessuno è straniero”, slogan che possiamo vedere stampato in autoadesivi su alcune automobili. A mio parere sono bellissimi: danno un po’ di speranza sul genere umano.

Ordine e Caos
Ordine e Caos

Ordine e Caos Nei vari anni ho costruito una decina di presepi, ma uno dei miei preferiti per varie ragioni è un presepe-non presepe intitolato “Ordine e Caos”. È formato da una spessa cornice di legno poggiato in orizzontale che sembra quasi i bastioni di una città con dentro un buon numero di parallelepipedi di legno, che possono rappresentare case, torri o grattaceli secondo le interpretazioni.
Il legno di questi elementi verticali è derivato da pezzi di radica per pipe, difettosi e quindi non utilizzabili per la lavorazione delle pipe.

La cornice, trovata per strada vicino a casa, potrebbe essere stata una cornice per un orologio a muro. Comunque, posta orizzontalmente dà un’impressione di forza. Di fortezza.
E poi, per ultimo, lo sguardo coglie due piccole cose di cartone… I piccoli personaggi in cartone (con colori ad olio e nei colori tradizionali dei presepi), un umano che indica una meta e trascina un asino con sopra un’altra figura avvolta in un mantello, sono interpretabili come le peregrinazioni prima della nascita o come fuga in Egitto. Indica una meta, il personaggio in piedi, ma la cosa ci sembra difficile e le scommesse restano aperte…
[Ordine e Caos, 2013, legno e cartone, 42x42x20 cm.]