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Stefano Taccone
Premetto che per me si tratta di una questione tutt’altro che facile da dipanare, e ciò probabilmente per numerose motivazioni. Come punto di partenza, non so pensare ad altro che analizzarle.

Innanzi tutto, sia la mia visione dell’arte che la mia visione della religione sono assai fondate sulla storia – meglio ancora sulla geo-storia -, ovvero sulla convinzione che esistano certo dei tratti che accomunano naturalmente il genere umano, ma che nel processo di soggettivazione intervengano anche tutta una serie di fattori sociali, economici, culturali mutevoli a seconda dei luoghi e dei tempi. Questo non significa non saper godere dell’arte tirando fuori il mio lato emotivo, passionale. E non significa neanche che io non sia credente e tanto meno praticante, giacché sono, viceversa, l’uno e l’altro.

E proprio qui mi imbatto in un altro passaggio spinoso. Non essendo uno storico delle religioni, ma sentendo di parlare davvero con cognizione di causa dell’oggetto religioso solo limitatamente alla fede che abbraccio, ovvero quella cristiana, segnatamente di confessione cattolica – per quanto sia molto affascinato dagli altri modi di pensare e di sentire che sono riconducibili all’alveo del religioso in quanto tentativi di rispondere alle grandi domande dell’esistenza, nonché al dialogo con essi -, trovo complesso imbastire un discorso sulla religione in generale.

Questione appena meno spinosa della religione è poi la stessa arte, la sua storia, la sua natura, i suoi inizi, la sua fine. Su questi dilemmi ho riflettuto molto e probabilmente sono colonne per gran parte della mia attività storico-critica intorno ad essa. Possiedo delle mie idee, che naturalmente sono sempre in fieri, ma non è questa, ovviamente, la sede per svilupparle. Basterà chiarire – cosa che già lascio intendere nel momento in cui adopero la locuzione in fieri – che per me l’arte non è una categoria a priori, ma una nozione sempre negoziabile sul piano discorsivo, cui partecipano una molteplicità di attori più e meno consapevoli – artisti, ma anche critici-curatori, galleristi, editori, estetologi… e chi più ne ha più ne metta.

Vi è poi l’altra, estremamente scottante, questione del rapporto tra arte e religione nel mondo contemporaneo, cui si soprappone inevitabilmente quella della crisi di tale, un tempo floridissimo, binomio, tipica del mondo occidentale.1 Essa chiama in causa tanto più la difficoltà di tenere insieme, in un discorso unitario, le varie forme d’arte – o di immagini, se si preferisce2 – e le varie forme di religione. Giacché è chiaro che se, da una parte, ogni religione possiede un determinato sistema di credenze e di riti e ciò implica che l’arte le corrisponda svolgendo specifiche funzioni, ovvero integrate entro quel sistema stesso, dall’altra, la diversità dei sistemi di credenze e di riti stessi reclama funzioni differenti per l’arte, che, a sua volta – sempre ammesso che in tutte le aree del globo sia lecito chiamarla arte e non, ad esempio, produzione platico-visiva –, si configura differentemente a seconda delle mutanti coordinate cronologiche e territoriali.

Il mio discorso, in altre parole, non può aspirare a nessuna – ma proprio a nessuna – pretesa di esaustività, ove mai naturalmente sia viceversa possibile per qualcun altro – e tanto più in così poche righe. Non potrò, pertanto, che partire dalle mie concezioni e dal mio vissuto, sia per quanto riguarda la religione che l’arte, e tracciare possibili fondamenta di ponti tra esso e ciò che è diverso da me, confidando però sempre nel valore racchiuso nel celebre motto derivato da una commedia di Publio Terenzio Afro, «Homo sum, humani nihil a me alienum puto», ché senza tale presupposto non vedrei davvero alcuna possibilità di successo.

(Ri)leggiamo questo celebre passo della letteratura profetica ebraica (Isaia 58, 5-7):

«[…] É forse come questo il digiuno che bramo,
il giorno in cui l’uomo si mortifica?
Piegare come un giunco il proprio capo,
usare sacco e cenere per letto,
forse questo vorresti chiamare digiuno
e giorno gradito al Signore?
Non è piuttosto questo il digiuno che voglio:
sciogliere le catene inique,
togliere i legami del giogo,
rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo?
Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato,
nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto,
nel vestire uno che vedi nudo,
senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne? […]»

Giustapponiamo ad esso almeno un passo del Nuovo Testamento (Matteo 7, 21-23):

«[…] Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome?  Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità. […]»

Sarebbe stato possibile, probabilmente, individuare anche altri passi nella Bibbia cristiana più o meno affini, ma bastino qui come saggio per indicare un concetto che è certo nell’ebraismo, nel cristianesimo, ma anche in una sorta di “religione naturale”: il principio per cui ogni sentimento è vano se resta sulle labbra e non si incarna nella prassi, o se, almeno, non impatta un po’ sulla vita quotidiana di chi lo professa.

Vita quotidiana è una parola chiave per le avanguardie del Novecento, che in una sorta di teleologia immanentista – o almeno supposta tale – pensano l’azione sui linguaggi artistici come qualcosa che eccede il suo specifico e trasforma radicalmente la vita, il mondo, raccogliendo le esortazioni di Arthur Rimbaud e Karl Marx.3 L’avanguardia si configura così come una sorta di slittamento post-nietzschiano dell’attesa della parusia cristiana, al di là di quanto ne siano stati consapevoli i suoi membri.

Il progetto dell’avanguardia – con il beneficio di un secolo di distanza possiamo dichiararlo – fallisce, o almeno ha diversamente successo, ed il fallimento, in un’ottica cristiana, è già inscritto nei suoi presupposti: una tensione palingenetica che però non fa i conti con il problema dell’inestirpabilità del male dall’orizzonte del mondo, giacché si fonda su una antropologia para-marxista, se non proprio marxiana, che vuole le cause del male tutte riconducibili a fattori storici, contingenti, per quanto millenari.

Tuttavia, un recupero, nell’accezione positiva del termine, del discorso dell’avanguardia, credo sia oggi possibile – al netto di tutti gli ostacoli della natura umana e del nostro tempo particolarmente inquieto, e, per certi versi, terrificante – tanto più nel quadro di una teleologia non immanente, proprio perché quella che punta su una trasformazione totale, necessaria, rapida, definitiva appare sotto scacco già prima che il XX secolo si chiuda e per quanto – ne sono consapevole – ventilare una proposta del genere possa apparire stucchevole per molti artisti, operatori e cultori ascrivibili all’ambito dello sperimentalismo – non credo sia ancora possibile parlare di avanguardia, ritenendo piuttosto la sua parabola storicamente conclusa –, giacché essi possiedono una concezione prettamente immanentista, se non proprio materialista, oppure anche aperta allo spirituale, ma non per questo legata ad una narrazione teleologica.

In altre parole, un incontro tra la necessità di incarnare la Parola e di incarnare l’estetica, meglio ancora su un piano di radicale performatività, senza i pregiudizi di uno statuto dell’arte già dato a priori, reificato, mercificato, nel quadro di una pulsione teleologica che torna a dimorare nel trascendente, potrebbe condurre ad una generazione feconda ed imprevedibile. Potrebbe aprire «una strada nel deserto», far scorrere «dei fiumi nella steppa», e magari persino convertire «Le bestie dei campi, gli sciacalli e gli struzzi», attingendo ancora, parafrasando, al profeta Isaia (43,19-20).

Che ruolo avrebbe infine in tutto ciò “l’altro, il pellegrino, lo straniero” e chi sono questi soggetti di preciso? E qui, almeno per quanto mi riguarda, si lambisce l’ennesima patata bollente, a cominciare dal fatto che uno dei punti deboli delle avanguardie è proprio la sua incapacità di tenere insieme radicalità ed egemonia: si nasce radicali con la prospettiva, persino la necessità storica, di conquistare l’egemonia e poi, quando si è conquistata l’egemonia, si perde la radicalità. Meglio allora rimanere nella condizione di alterità minoritaria, di emarginazione, per quanto essa possa provocare sofferenza? Secondo alcuni questa sarebbe, peraltro, la vera vocazione del cristiano, prima che, al più tardi con Costantino, il cristianesimo fosse “normalizzato”.

D’altra parte, siamo sicuri che colui che intende portare il presunto “verbo” in quanto pensatore divergente sia il vero straniero o non sia piuttosto un falso profeta, tronfio di un sapere più fantasmatico che reale, che non è altro che il riflesso nefasto della sua mancanza di empatia e del suo egotismo? E che lo straniero non sia piuttosto colui che non sa, colui che non comprende, colui che non sa neanche parlare all’intelletto, agli occhi e alle orecchie del “vate” post-avanguardista? E chi è più “straniero” tra Paul Gauguin che non sopporta la sua civiltà e gli indigeni presso i quali va a vivere e che ritrae?

O, per avanzare un caso più vicino ai nostri tempi e ai nostri spazi, chi è più “straniero” tra Riccardo Dalisi che non sopporta le tendenze razionaliste dominanti nelle pratiche architettoniche della sua epoca e i ragazzini sottoproletari del Rione Traiano?4


NOTE

1 Su questi temi cfr. almeno A. Dall’Asta Sj, Eclissi. Oltre il divorzio tra arte e Chiesa, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2016.
2 A tal proposito cfr. H. Belting, Bild-Anthropologie : Entwürfe für eine Bildwissenschaft, 2002, trad. it. Antropologia delle immagini, Carocci editore, Roma 2011.
3 Su tale lettura delle avanguardie cfr. P. Bürger, Theorie der Avantgarde, 1974, trad. it. Teoria dell’avanguardia, Bollati Boringhieri, Torino 1990, ma anche il mio La radicalità dell’avanguardia, Ombre Corte, Verona 2017.
4 Cfr. R. Dalisi, Architettura d’animazione. Cultura proletaria e lavoro di quartiere a Napoli, Carucci Editore, Assisi/Roma 1975.