Interviste

Roberta ForestaRoberta Foresta

Nata a Padova il 18/08/1969, ha studiato per il baccalaureato a Padova, ha conseguito la Licenza in teologia biblica alla Pftim sezione San Luigi a Napoli e il dottorato in storia religiosa all’Università La Sapienza di Roma. Frequenta la scuola di Arte e Teologia. Insegna religione cattolica ad Aosta nelle scuole secondarie di secondo grado. Ha conseguito in Diploma in Arte e Teologia presso la Pftim – sezione S. Luigi, Napoli.

 

Papa Francesco ha recentemente ricordato il legame stretto che da sempre unisce la Chiesa agli artisti. Qual è il suo rapporto con la Chiesa, da artista?

La Chiesa, da intendere anche e soprattutto da un punto di vista estetico, come luogo e contenitore di una bellezza senza tempo, mi ha “costretto”, per forza di cose, ad un rapporto intenso, ad una frequentazione innamorata. Non manco dal sentire l’esigenza di fermarmi per entrare in una qualsiasi Chiesa, ad ammirare le sue bellezze, che sia a Napoli, a Roma, ovunque. Il mio rapporto con la Chiesa è intenso, anche perché alcune tra le opere che amo di più, che mi hanno ispirato, mi hanno condizionato e accompagnato nella riflessione, io le ho trovate in una Chiesa.

In un tempo, qual è quello che viviamo, dove sembrano prevalere distruzione, morte e la fine di ogni speranza, l’artista, afferma Papa Francesco riprendendo il teologo Romano Guardini, “crea” uno spazio, l’opera d’arte, dove entrare, respirare, muoversi e “trattare le cose e gli uomini, fattisi aperti”. L’arte apre alla comprensione profonda della realtà, illumina, stimola l’immaginazione. È così anche per lei?

Una domanda molto interessante e importante. Io faccio sempre un parallelismo con il mettere al mondo un figlio, una figlia, che io intendo come gesto di restituzione al mondo. In italiano noi diciamo “mettere al mondo”, in qualche modo dare, restituire. Se riflettiamo su questo dettaglio, quella cosa che noi mettiamo al mondo, in questo caso un’opera, ma anche un’immagine, un pensiero, come accade per un figlio, in fin dei conti non ci appartiene. Il nostro impegno è creare quel valore, un valore che acquista una propria identità, che possa essere motivo di una partecipazione alle cose del mondo, capace di costruire, produrre nuova bellezza. Quando io penso all’opera d’arte penso a un figlio, a qualcosa che si mette al mondo, si diventa genitore, nel senso di generatore, e quel valore generato appartiene agli altri. L’artista ha il dovere di mantenere in vita questa creazione, di accompagnarla come si fa con un figlio, di garantirgli un posto sicuro, una prospettiva. Però, poi, l’opera fa la sua vita, questo è anche il valore della creazione. Che è qualcosa di impersonale, noi con le parole gli attribuiamo un senso di proprietà, in realtà la creazione dell’opera d’arte non ha niente a che vedere con tutto questo.

Gli esseri umani hanno la necessità di dare un significato alle cose, tramite le parole, di attribuire un valore alle cose per misurarle, io credo che l’opera non vada rinchiusa nelle parole. La creazione di un’opera è forse la cosa più libera che c’è, la cosa più vera, più bella, che non va spiegata perché altrimenti distrutta, e nemmeno deve essere pensata come proprietà dell’artista. Il senso della creazione di un’opera consiste proprio nel dare, nell’offrire un gesto di restituzione, un gesto che a mio avviso si avvicina al modo di essere della divinità, mentre gli uomini costringono le cose dentro le parole che limitano la creazione e le parole spesso mettono l’opera creata in un gioco di contrapposizioni. Al contrario, il gesto creativo dovrebbe generare relazione, comunione, apertura, un respiro che apra alla dimensione spirituale.

Jago
Figlio velato
Nelle parole di Papa Francesco la creazione da parte dell’artista viene proprio descritta come un mettere al mondo qualcosa di nuovo, qualcosa che non si era mai visto, che l’artista sogna, immagina, per migliorare il mondo. In che modo nascono le sue sculture?

Le fasi del “mettere al mondo qualcosa di nuovo” sono le stesse di quando si mette al mondo un figlio. Vi è il concepimento che possiamo associare ad un’idea, un’immagine embrionale, una cosa piccolissima, accompagnata da un sentimento, che deve incontrare la volontà di poter realizzare l’opera con un grande lavoro. Perché tutti possiamo desiderare di fare delle cose, ma poi le dobbiamo fare, quindi da quell’immagine iniziale si deve passare alla messa in pratica, alla realizzazione. Io sento di aver poco tempo a disposizione in questa vita per fare tutte le cose che mi sono messo in testa di fare, il mio problema è scegliere, tra le tante idee, quella che vale veramente la pena di realizzare. Durante il lavoro poi, quell’idea cambia di forma, diventa altro, perché il lavoro stesso suggerisce degli effetti che magari in una fase embrionale non c’erano. L’arte è qualcosa che evolve, mentre la fai cambia e si lascia condizionare dal contesto, dall’ambiente. Questo è il bello, perfettamente in linea con la creazione dell’individuo. Poi devo andare nella cava a scegliere il marmo, mi devo impegnare giornalmente perché non ho altri che lavorino al posto mio, quindi mi devo sporcare le mani.

Nella mia arte c’è l’arte passata ma c’è anche quello che succede nel mondo. Non posso sottrarmi dall’essere condizionato dal mondo in cui vivo, dalle persone che mi circondano, anche da questa conversazione. Quando avrò finito tornerò a lavorare e le sue parole, le sue domande mi avranno condizionato in qualche modo, ed io riporterò questo sentimento nel lavoro che sto facendo. Il bello dell’arte in generale è che è un linguaggio che non conosce confini, ha la capacità di sintetizzare dei valori in un attimo, con un’immagine. L’arte ha un potere enorme.

Il Figlio velato e la Pietà, in modo particolare, sono due sculture che entrano nell’oscurità, nella drammaticità della condizione umana. Ma vogliono anche gettare una luce. Quale messaggio di speranza, di bellezza vogliono trasmettere?
Jago museum, Napoli

Sto sempre più evitando di parlare dei significati legati alle opere che realizzo, cerco proprio di non raccontarle, perché ho scoperto che se ascolto, l’altro riesce a dirmi delle cose sull’opera che ho realizzato che non potevo neppure immaginare, cose che l’opera conteneva, ma che appartengono all’altro. Queste due opere, ma anche le altre, sono capaci di contenere tutto e il contrario di tutto, quella bellezza e quella speranza sono lì dentro, insieme alla drammaticità. Noi dobbiamo essere in grado di vedere in un’opera una speranza, anche se l’opera dichiaratamente dimostra altro, sta a noi leggerla. Noi siamo immagine di quella speranza e ci riconosciamo nelle cose che ci stanno di fronte. Chi ha bisogno di speranza troverà speranza ovunque, una persona disperata sarà disperata ovunque, anche di fronte all’opportunità più grande della propria vita, vedrà soltanto nero.

La decisione di aprire un Museo all’interno della Chiesa dei Crociferi a Napoli, la volontà di essere presente nel cuore del Quartiere Sanità, cosa significa per lei, oltre che per la città di Napoli?

Per me è un’opportunità meravigliosa, perché la vita mi ha condotto a Napoli, la vita poi mi ha condotto nello specifico a Sant’Aspreno e quindi nel quartiere Sanità. Non ho cercato, non mi sono seduto a tavolino a fare un piano, sono cose che sono accadute e io ne ho riconosciuto il valore. Quando riconosci il valore in qualcosa, allora vale la pena di approfondirlo. Ho scoperto un mondo incredibile di opportunità, per migliorarmi, soprattutto, ho scoperto il lavoro di persone come la Fondazione di comunità San Gennaro, padre Antonio Loffredo, in particolare, così come la Cooperativa la Paranza, la Nuova Cooperativa che oggi gestisce tutti questi valori, soprattutto quello museale a Sant’Aspreno, la Sorte. Tutte queste persone sono degli scultori che hanno a che fare con materiale umano, dei grandi comunicatori che sanno esattamente che tipo di materiale hanno di fronte, sempre diverso. E la lezione è che, materiali diversi, strumenti diversi, nel loro caso la comunicazione, mentre io devo saper usare bene martello e scalpello. Alla Sanità, a Napoli, ho scoperto che cosa vuol dire fare scultura, occuparsi di comunicazione, essere semplici, togliere il superfluo ma veramente per arrivare all’essenza delle cose. Quando scopri queste cose non puoi non innamorartene, io me ne sono innamorato e ho capito che era una grandissima opportunità per potermi migliorare. Ho deciso di portare a Napoli le mie sculture, considero il mio lavoro qui, ogni giorno, un primo passo, non credo di aver fatto tanto ma penso che possa essere sempre un buon primo passo.

Papa Francesco afferma che anche i poveri, in tutti i modi in cui si è poveri oggi, hanno bisogno dell’arte e della bellezza e invita gli artisti a non dimenticare i poveri. Come questo appello si concretizza nella sua vita di uomo e di artista?

Sono certo che qualsiasi cosa fatta con amore possa essere un grande valore per l’altro, ma anche le cose fatte per sé stessi sono un bene prima di tutto per sé e poi anche per l’altro. Qualsiasi prodotto della creazione può rappresentare un bene per l’altro, ma deve essere mosso da un sentimento d’amore, anche da un sentimento di amor proprio. Se l’arte è la possibilità di recuperare un rapporto profondo con sé stessi, perché costringe ad una solitudine, che soltanto chi fa l’artista o chi svolge un lavoro comunque creativo può conoscere, inevitabilmente si migliora, perché ci si conosce di più e quando ti conosci meglio ti riconosci di più anche nell’altro. E allora è impossibile fare la guerra.

Lei una volta ha detto che l’arte è sacra. Cosa vuol dire?

Separata, l’arte è come Dio. Purtroppo tante parole si sono svuotate di significato: noi parliamo di Dio e di arte a volte usando parole a sproposito, parole vuote, senza davvero riflettere almeno un minuto sul senso delle parole che usiamo per parlare dell’arte e di Dio. Non dovremmo usarle così le parole perché finiamo per svuotarle di senso. Le usiamo perché dobbiamo riempire un vuoto. L’arte è qualcosa d’altro, tanto che io non posso dire di essere un artista e di aver fatto un’opera d’arte, nel senso che l’arte è qualcosa di molto più grande. Posso però tentare di far sì che la mia opera in qualche modo sia manifestazione dell’arte. Emerge un pezzettino. Così come quando parliamo di Dio. Se io per spiegare il mio Dio lo chiudo nella parola Dio, nel concetto, cerco di spiegarlo, muore, perché rinchiuso dentro i limiti della parola. Allora si entra nel dibattito, nelle spiegazioni, nei significati, che sono sempre personali. Di certe cose è meglio non parlarne.

Se voglio spiegare il fiume dove prendevo i miei sassi per fare le prime sculture, posso provare a raccontarlo. Ma poi cosa succede? Succede che ciascuno immagina il suo fiume; pensiamo di parlare della stessa cosa, dello stesso Dio, della stessa arte, ma in realtà parliamo di cose diverse che esistono per noi in relazione alla nostra esperienza di quelle cose, di quelle parole che usiamo e a cui attribuiamo dei ricordi, delle emozioni, delle immagini, che sono diverse per ciascuno. Non sono uguali, solo la parola e il suono sono in comune, in realtà parliamo di cose diverse. Spesso si litiga perché non ci si capisce. Così, per mostrare, per far capire di che fiume sto parlando, prendo un po’ d’acqua dal fiume in un bicchiere e lo mostro, ma nel momento in cui compio quel gesto, mettendo un po’ d’acqua in un bicchiere, e cerco di esprimerlo in concetti, il fiume smette di fluire. La stessa cosa avviene con Dio, avviene con l’amore, con l’amicizia, non ci si capisce quando si parla. Ecco che, quando si accende la televisione si vedono immagini di guerra e di violenza. Invece, si dovrebbe tentare di sentire, di capire di più l’altro non contrapponendo parole e concetti, ma provando a percepire l’altro come manifestazione di quell’umanità che anche noi siamo e che ci accomuna.