esr
Ernesto Sergio Mainoldi

Una cosa ho chiesto al Signore, e quella ricerco:
abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita,
per contemplare la bellezza del Signore,
e meditare nel suo tempio
Sal 26,4

Definire il ruolo dell’arte risulta quanto mai arduo in un’epoca in cui l’espressione artistica sembra fondarsi sull’unico assioma del superamento del limite, sull’urgenza del divincolarsi da ogni stile del passato, e sembra assumere come unico principio teorico irrinunciabile la negazione del concetto di “classico” – termine che viene mantenuto soltanto per ragioni di etichetta storiografica, nonché commerciali.

Paradossalmente però, mai come in questa epoca l’arte del passato, con i suoi monumenti classici, è oggetto di continua fruizione secondo le logiche dell’industria dello spettacolo e del turismo, in tutte le sue forme e modalità di riproduzione. A fianco di questa industria, che, al di là delle logiche commerciali, assolve allo scopo di reiterare l’identità storico-culturale della civiltà che l’ha prodotta e favorire l’ibridazione mimetica con altre civiltà, la produzione dell’arte “alta” viene identificata dalla cultura contemporanea nell’avanguardia, la cui vocazione è quella di realizzare il superamento continuo del limite e delle precedenti forme d’arte, ponendosi agli antipodi rispetto alla reiterazione dell’identità “classica”.

Ora, pur cercando l’arte d’avanguardia di caratterizzarsi all’insegna della non-identità e della dissoluzione degli stili del passato, essa non può sfuggire alle dinamiche della formazione di un’identità, e questa consiste nell’unidimensionalità, essendo la concezione ad essa sottesa votata alla singolarità spazio-temporale della contingenza, alla forma in quanto apparenza dell’apparenza e occasione al più di riflessione su contenuti a cui l’opera rimanda attraverso analogie formali e associazioni di pensiero, rimanendo rigorosamente sul piano orizzontale dell’immanenza.

Dacché il pensiero contemporaneo ha declinato l’interesse a concepire una teoria del bello, l’arte che caratterizza il nostro tempo non arriva a contemplare il bello come suo criterio e scopo – diremmo aristotelicamente: né causa formale né causa finale –, ammettendolo come accidente eventuale della produzione a cui essa dà luogo in quanto espressione dell’immanenza e dell’impermanenza. Questa arte, che si sviluppa nel migliore dei casi come riflesso dell’esistenza nella sua compressione sul piano della storia o della polemica sull’attuale, sostanzialmente si configura come happening, cioè come celebrazione del transeunte e insostanziale, evitando ogni rimando a una dimensione altra, onde l’opera d’arte viene inserita in una ricerca di senso che rimane confinata nell’esperienza soggettiva dell’artista o del fruitore.

Pur instaurando l’opera d’arte, nel momento della sua fruizione immediata, una comunicazione mimetica tra artista e fruitore, e comportando una discontinuità percettiva rispetto alla dimensione spazio-temporale in cui essi sono calati, tale discontinuità non si presta a liberare la percezione dai limiti del perimetro fenomenico, rinunciando a presentarsi come manifestazione di piani ontologici diversi, escludendo quindi a fortiori il piano della trascendenza, il totalmente altro. Il superamento del limite ricercato dall’arte contemporanea è quindi percettivo, formale, al limite prestato alla necessità del superamento etico, ma non si pone lo scopo del trascendimento della condizione immanente dell’individuo.

Conseguentemente, l’estetica che sostanzia la fruizione di massa dei prodotti d’arte – che siano le forme architettoniche che incombono sullo spazio pubblico, le mostre di opere visive o i concerti, oppure il semplice reimpiego di immagini e suoni in funzione di colonna sonora di pubblicità o di post sui social network – risente della sostanziale chiusura di ogni finestra sulla trascendenza e sull’ethos, cioè sul potere psicagogico dell’arte, il quale è necessariamente suggestionato dalla forma e dalla materia di cui l’opera d’arte si costituisce. Tale chiusura rende l’arte votata all’impermanenza. La riproducibilità digitale fa poi sì che l’arte, nella realtà virtuale, sia slegata da un contesto proprio, da uno spazio e da un tempo propri nei quali essa diventi capace di rimandare a un altro spazio-temporale, perdendo così la sua capacità di essere l’espressione e il movente di una comunità.

Nessuna forma d’arte sembra oggi sottrarsi alle esigenze del consumismo estetico che le logiche della riproducibilità e della fruizione virtuale impongono all’esperienza quotidiana su scala planetaria, trasversalmente a ogni cultura, condizione sociale o economica. L’arte risucchiata nello spazio digitale, pur apparendo come il caleidoscopico mosaico di una comunità globale, di fatto costituisce la negazione di ogni autentica comunità, quale si può formare soltanto attraverso la presenza e la prossimità, e in cui ha luogo la produzione e la fruizione artistica nella quale essa imprime la sua identità e unità, gettando le premesse del dialogo con altre identità di comunità.

Le varie forme d’arte, nell’illusorio compiacimento degli artisti di essere gli araldi dell’abbattimento dei limiti e i profeti di un nuovo modo di essere, slegato da identità e unità, si pongono oggi al servizio dell’apparato tecno-economico, che rende la fruizione d’arte mero consumo, racchiuso nel flusso temporale dell’immanenza.

L’arte, pur non declinando la tradizionale vocazione di porsi al servizio di idee e di istanze di comunità, evita radicalmente il quesito che chiede se la ricerca della verità sul piano orizzontale dell’immanenza non sia destinata a rimanere confinata entro i limiti dell’essere didascalica, assurgendo all’essere poco più che un commento o una denuncia pubblicistica infarcita di una sovrastruttura estetica avente l’unico scopo di attirare l’attenzione, seguendo le logiche del marketing. L’arte, tuttavia, non può sottrarsi alla sua funzione etico-ontologica primaria, che è quella di creare e trasmettere mimeticamente un ordine e un ethos: l’arte che rifugge il bello, ovvero che non mira a instaurare un ordine di bellezza, impone necessariamente l’ordine dell’immanenza, rimanendo impigliata nelle maglie del mimetismo orizzontale, e vede nella negazione della trascendenza la sua cifra escatologica. La perdita del criterio del bello come scopo e come forma dell’arte è la conseguenza della defunzionalizzazione primaria del bello, cioè del passaggio da una sua concezione quale manifestazione e veicolo del bene, ovvero di un ordine superiore e trascendente, a una sua concezione estetica, in quanto mera forma sensibile immanente.

Il divorzio tra il bene e il bello priva l’arte di una finalità dipendente da un ordine superiore, relegandola a un ruolo inessenziale e accessorio nel novero delle attività umane. L’arte diviene così impermeabile alla speranza che è connessa alla realizzazione di un bene superiore, ammettendo conseguentemente l’indifferenza teleologica come cifra etica della sua espressione e l’indifferenza teologica come sua cifra noetica. Ponendosi come fine la creazione di bellezza l’arte, per contro, ottempera al bene, assolvendo al compito di limitare il potere trasformativo della tecnica che porta alla deformazione della natura, creando un mondo artificiale senza volto, impersonale, improntato al gigantismo e finalizzato all’impermanenza sempre inquieta del profitto economico. L’estetica dell’arte contemporanea trova così un comune denominatore nell’essere espressione dell’ordine della tecnica e delle sue finalità economico-immanentistiche.

Quale che sia la speranza che si può riporre nel futuro dell’arte, questa speranza non contempla la dimensione superiore e trascendente della Speranza, che è quanto chiede all’arte di essere epifania della verità e della bellezza che scendono dall’alto1, riunendo l’artista e il fruitore in una comunione di vedute, di ispirazione e di attesa nella tradizione delle rivelazioni divine. La Speranza non è infatti un vano attendere o un’attitudine disincarnata, volta alla realizzazione di una potenzialità che ancora non è; essa è bensì partecipazione al già-ma-non-ancora: il suo orizzonte appartiene alla potenza (virtus) divina che già opera nel mondo dall’Incarnazione del Verbo e dall’effusione dello Spirito Santo, ed esprime il tempo antinomico della Salvezza che già è data e ancora deve compiersi.

La dimensione del già-ma-non-ancora della Speranza costituisce un elemento centrale della soteriologia neotestamentaria, come si può leggere in particolare nelle lettere paoline e cattoliche. La Speranza è “già” realizzata nella Salvezza elargita dall’Incarnazione, Passione e Resurrezione del Verbo:

E voi per opera sua credete in Dio, che l’ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria e così la vostra fede e la vostra speranza sono fisse in Dio2. Noi invece, che siamo del giorno, dobbiamo essere sobri, rivestiti con la corazza della fede e della carità e avendo come elmo la speranza della salvezza3.

E la stessa Speranza ha da compiersi “ancora” nella parousia del Verbo e nella resurrezione generale:

nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo4. Da quella morte però egli ci ha liberato e ci libererà, per la speranza che abbiamo riposto in lui, che ci libererà ancora5.

Perciò, dopo aver preparato la vostra mente all’azione, siate vigilanti, fissate ogni speranza in quella grazia che vi sarà data quando Gesù Cristo si rivelerà 6.

La dimensione antinomica del già-ma-non-ancora è poi esplicitamente sottolineata dallo stesso san Paolo:

Nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo?  Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza7.

Possiamo così affermare che la Speranza instaura una dimensione temporale in cui il passato e il futuro sono unificati in un presente segnato dalla perpetua presenza nella Storia del Verbo Incarnato, come Egli stesso ha assicurato ai suoi discepoli: io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente8. La continuità di questa presenza si concretizza nella Liturgia, il cui centro è l’Eucaristia, e in cui il “già” della Speranza diventa percettibile nei doni della comunione con Dio: Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo9.

Perpetuandosi nel mistero eucaristico la presenza di Cristo, la Speranza trova il luogo della sua verità nella liturgia della Chiesa. E come la Speranza sorge dalla verità del Vangelo – di questa speranza voi avete già udito l’annunzio dalla parola di verità del vangelo10 – così essa comporta l’esperienza della “gioia” e della “pace”, il cui aspetto sensibile, percettibile e gustabile si dischiude nella liturgia. La liturgia costituisce allora il contesto in cui la Speranza si concretizza mostrando che essa non è “follia” ma “potenza di Dio” che salva11. Ora, la potenza di Dio agisce misteriosamente nella liturgia, stante il presupposto della sinergia divino-umana nella comunione ecclesiale, ma questo bene, che si dà misticamente nella liturgia come partecipazione personale alle energie divine deificanti, non è privo di una sua manifestazione sensibile, nella quale si mostra la sua partecipazione al Bene-Bello, cioè alle energie divine per cui la creazione è buona e bella e allo stesso tempo tende al Bene e al Bello:

«Il Bello è principio di tutte le cose in quanto causa efficiente, che muove tutte le cose e le tiene insieme con l’amore verso la propria bellezza; e il Bello è il fine di tutte le cose ed è degno di essere amato in quanto causa finale (infatti, tutte le cose nascono in vista del Bello) e causa esemplare, perché tutte le cose si definiscono in riferimento a esso […] il Bello si identifica con il Buono poiché tutte le cose in ogni maniera tendono al Bello e al Buono, né esiste alcun essere che non partecipi del Bello e del Buono»12.

L’essere buono e bello delle creature appartiene alla stessa dimensione del già-ma-non-ancora, in quanto esso mostra sensibilmente nei simboli liturgici e corporalmente nell’Eucaristia la Speranza già realizzata ecclesialmente della Salvezza, la quale ancora ha da compiersi nella comunione eterna e nella bellezza trasfigurante del Regno di Dio. Possiamo così dire che la bellezza è la manifestazione sensibile dell’essere in atto (in quanto enérgeia) della virtù (cioè la dynamis, potenza) della Speranza, confermando che il suo fine è già stato raggiunto nella Chiesa per compiersi perfettamente nel Regno.

Allo stesso modo la Speranza ispira la creazione di arte bella e buona in cui risplende l’ordine divino a cui essa attende: Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi13.

Nella liturgia si ha la partecipazione mistica ai nomi divini del Bene e del Bello, che, in quanto energie divine, deificano e guidano alla ricezione dell’Eucaristia, reale comunione con Dio ed escatologia realizzata. Le forme sensibili della liturgia devono quindi essere irradiazione di bontà e di bellezza; diversamente la Speranza della Salvezza, di cui essa si fa portatrice, non sarebbe reale bensì immaginaria. Non si dà il bene nella liturgia senza la bellezza, né la bellezza senza il bene, pena lo scadere nel divorzio tra il bene e il bello che già si consuma nell’arte secolarizzata. La bellezza, in virtù del suo legame liturgico con la Speranza, costituisce l’aspetto epifanico dell’economia della Salvezza. Senza bellezza la Speranza è destinata ad affievolirsi, mancando di un segno visibile che mostri che essa è già realizzata nella vita pre-parusianica.

Si pone così il problema di identificare il criterio per il quale un’opera d’arte possa dirsi bella e la sua bellezza possa essere autentico tramite di anagogia, cioè favorire un’effettiva elevazione spirituale e non essere mera occasione di un’esperienza emotiva. Quale bellezza può trovare legittima dimora nella liturgia onde costituire il corpo sensibile della Speranza? La bellezza sensibile dà infatti luogo a impressioni emotive, le quali possono trasmettere la piacevolezza illusoria di un’effettiva anagogia, laddove forme liturgiche non consone ne trasmettano la parvenza e i sensi spirituali non siano in grado di coglierne l’effetto catagogico.
San Massimo il Confessore ben esprime, in riferimento alla musica, il ruolo e lo scopo anagogici che l’esperienza estetica deve avere nella liturgia:

«La spirituale dolcezza dei canti divini significa il godimento rivelatore dei beni divini: il quale muove le anime al perfetto e beato amore di Dio, e più le eccita all’odio del peccato»14.

Come può allora l’arte liturgica elevarsi dall’immanenza delle forme ad esprimere la vera bellezza, quella che unisce alla Bellezza divina e deificante? In altre parole, come possono le forme liturgiche essere autenticamente simboliche, cioè unire (syn-ballein, “mettere insieme”) alle realtà trascendenti simboleggiate?

Secondo il linguaggio patristico il simbolo è uno strumento chiragogico, che guida cioè “per mano” verso le realtà spirituali mediante la sua forma sensibile, cosa che si rende necessaria in ragione dell’infermità dei sensi spirituali dell’uomo decaduto nel peccato. Come rimedio a questo stato di cose, analogamente al fatto che la Salvezza è data dall’alto, così anche il simbolo sacro deve essere istituito gerarchicamente, in modo discendente, secondo le modalità della rivelazione dall’alto. La concezione ortodossa del simbolo vede infatti questo non come mero segno, in linea cioè con una concezione semiotica15, bensì alla stregua di realtà in cui si uniscono la forma sensibile e le energie dell’ipostasi gerarchica che l’ha istituito e lo rende, in quanto elemento della trasmissione gerarchica delle illuminazioni divine, effettivo tramite di comunione; possiamo così dire che il simbolo liturgico ha valore sacramentale in proporzione alla posizione occupata nel rito.

L’arte liturgica deve avere per definizione proprio questo compito. Un’arte liturgica che non esprima la Bellezza, cioè che non sia symbolon dell’energia divina e deificante, rimane sul piano dell’immanenza, capace sì di muovere orizzontalmente l’anima ma non verticalmente lo spirito, e resta appannaggio di un’arte secolare, incapace di testimoniare la Speranza. La fenomenologia delle decadenze liturgiche mostra che l’incomprensione del simbolo quale luogo di incontro tra la forma e l’energia deificante produce degli pseudomorfismi rituali per i quali si cerca di supplire alla piattezza orizzontale di un’arte liturgica lontana dalla Bellezza trascendente, facendo scadere la liturgia in happening o occasione di intrattenimento, dove la sua forma nulla ha a che vedere con l’esperienza del Mistero che in essa si dona. In questo modo la Speranza resta concetto astratto, avulso dall’arte e dalla bellezza. E se l’arte non arriva a testimoniare della Speranza nella liturgia, di certo non lo farà altrove. Come si può dunque evitare la secolarizzazione delle forme liturgiche?

L’arte che voglia mettersi al servizio della liturgia cristiana deve essere ancorata a un’ortodossia e a un’ortoprassi per cui essa sia teologicamente e tecnicamente finalizzata a fare della liturgia casa della Bellezza e corpo della Speranza. Nelle teorizzazioni tradizionali dell’arte si incontrano svariati tentativi di fissare dei principi oggettivi per cui l’opera diventi simbolo di realtà e di ordini trascendenti. È il caso ad esempio del pitagorismo musicale, per cui l’armonia musicale partecipa dell’ordine supercosmico attraverso ben precise proporzioni aritmetiche. Tuttavia, il criterio dell’arte che aspiri ad esprimere la Bellezza trascendente non può essere soltanto formale, cioè non può nascere da proporzioni cosmiche o dall’elevazione arbitraria delle forme immanenti a simboli, perché in questo modo non riuscirebbe a supplire alla carenza ethica (ovvero energetica) di queste forme.

L’arte sacra che intenda assurgere ad essere epifanica e anagogica, oltre che meramente didattica e didascalica, non può allora che istanziarsi di simboli gerarchicamente istituiti e trasmessi mimeticamente in seno alla tradizione ecclesiastica e gerarchica, riconoscendo il proprio archetipo in opere realizzate dietro una rivelazione o un’ispirazione sovrannaturale (come ad esempio le icone acheropite di Cristo)16, oppure come imitazione nella forma di rivelazioni dovute a visioni o audizioni mistiche (come nel caso del Sanctus udito misticamente dal profeta Isaia17, o dell’inno Trisagion, udito misticamente da un fanciullo rapito in cielo durante un terremoto che colpì Costantinopoli nel VI secolo)18.

La tradizione dell’arte nella Chiesa ortodossa si basa precisamente su questi presupposti, avendo mantenuto nel corso della sua millenaria storia una concezione dell’arte come luogo epifanico della Speranza, promuovendo e valorizzando le arti come complemento necessario della sinergia divino-umana che si realizza nella liturgia – un complemento che ha avuto sanzione dogmatica dal Settimo Concilio Ecumenico19. Che la Liturgia possa essere luogo della Speranza, è possibile solo a patto che la bellezza dimori in essa e renda evidente la Speranza come vera, in atto e in compimento.

Per queste ragioni, l’Ortodossia non ha mai sostanzialmente guardato alle sirene dell’arte contemporaneista, declinando tanto i fasti della musica strumentale e dei linguaggi musicali progressivi nella complessità, quanto evitando nell’architettura sacra una sontuosità fine a se stessa, contenendo il realismo nonché l’astrattismo pittorici, ed escludendo la casualità delle forme e della decorazione finalizzate a compiacere il gusto e l’emotività piuttosto che a farsi simbolo diafano della realtà spirituale. Certamente segni di decadenza son ravvisabili anche in certe espressioni dell’arte ortodossa, come la produzione di icone dipinte secondo uno stile realistico o primitivistico, la teatralizzazione del rito, o l’erezione di chiese come fortezze turrite; ma queste possono essere considerate come corruzioni epocali e locali, che non mettono in discussione le ragioni essenziali dell’arte liturgica e i suoi fondamenti teologici, né hanno mai portato all’abbandono delle forme simboliche della tradizione ortodossa.

La Chiesa ortodossa riconosce e rispetta il valore della creatività umana, e vede nell’arte un’espressione della libertà dell’uomo, in cui agisce la sua facoltà di rappresentazione e di rammemorazione degli eventi che plasmano il tempo in cui gli è dato di vivere. Tuttavia la Chiesa, nel suo ruolo pastorale di guida verso il Regno eterno di Dio, invita a trasfigurare la creatività umana nella bellezza che è eco della bellezza intellettiva20. Se questo è auspicabile per l’arte secolare, affinché essa diventi veicolo di “gioia e pace” nella società, per la liturgia costituisce un aspetto imprescindibile e irrinunciabile.

Rendimento di grazie e bellezza sono davanti a lui,
santità e magnificenza stanno nel suo santuario.
Ps 95, 6


NOTE
1 Cfr Gc 1, 17.
2 1Pt 1,21.
3 1Tess 5,8.
4 Tito 2,13.
5 2Cor 1,10.
6 1Pt 1,13.
7 Rm 8, 22-25.
8 Mt 28,20.
9 Rm 15,13.
10 Col 1,5.
11 Cfr 1Cor 1,18.
12 Pseudo-Dionigi Areopagita, Nomi divini IV, 7, 704A-708A, trad. it. di Piero Scazzoso, in Dionigi Areopagita, Tutte le opere, Bompiani, Milano, 2009, pp. 415-419.
13 Ef 1,18.
14 Massimo Confessore, Mistagogia, a cura di Raffaele Cantarella, Firenze, 1970, p. 173.
15 Cfr. Alexander Schmemann, L’Eucaristia. Sacramento del Regno, Qiqajon, Magnano 2005, cap. II, 7.
16 Cfr. Emanuela Fogliadini, Il volto di Cristo: gli acheropiti del Salvatore nella tradizione dell’Oriente cristiano, Jaca Book, Milano 2011.
17 Cfr. Is 6, 3.
18 Vilaró Sebastià Janeras, Le Trisagion: Une formule brève en liturgie comparée, in Acts of the International Congress of Comparative Liturgy Fifty Years After Anton Baumstark: 1872-1948, ed. Robert F. Taft and Gabriele Winkler (OCA 265), Rome 2001, pp. 543, 553.
19 Cfr. Ernesto Sergio Mainoldi, L’ethos iconofilo e il secondo concilio di Nicea, in Le immagini sacre e la Chiesa antica. Il secondo concilio di Nicea (787), a cura di Vito Limone e Claudio Moreschini, Edizioni Nerbini, Firenze 2023, pp. 139-161.
20 Pseudo-Dionigi Areopagita, Gerarchia celeste II, 4, 144B, trad. it. di Piero Scazzoso, in Dionigi Areopagita, Tutte le opere, Bompiani, Milano 2009, p. 95.