CastagnaEdoardo Castagna
 

Man has always perceived a strong link among mountain, beauty and the sacred. From the place of the divine dwelling, a point of conjunction between heaven and earth, between divinity and humanity, we come to consider the mountain itself as sacred, mysterious and inaccessible. In Christian prospective, the link between mountain and sacred must be seen in the light of the relationship among God, man and nature.

Nel suo ultimo libro Le dimore di Dio. Dove abita l’eterno (Il Mulino, pagine 376, euro 28,00) Franco Cardini si interroga su dove si trovi la casa della divinità. Da buon toscano, il grande medievista fa correre la sua mente a un giardino ben curato, in collina, come quello di Boboli. Ma dalla sua stessa ricognizione emerge come l’umanità abbia sempre avuto la tendenza a individuare la sede del sacro in luoghi elevati, lontani, magari inaccessibili: e le montagne hanno risposto perfettamente a questa esigenza umana. Dall’Olimpo in giù, i pantheon hanno spesso trovato sede proprio in quel punto di contatto tra la terra e il cielo, tra l’umano e il divino, rappresentato dalle vette dei monti avvolte nelle nubi. Da luogo di dimora del sacro, a sacro in sé, il passo è stato breve, complice il fatto che fino a due secoli fa – un istante, nella storia dell’umanità – la montagna era sinonimo di assoluta inaccessibilità.

L’alpinismo è uno dei tanti figli della modernità, quello che ha contribuito a stravolgere il nostro rapporto con Dio e la montagna soprattutto dal punto di vista dell’immaginario, stabilendo nuovi paradigmi. Per secoli la vetta è stata il luogo del non raggiungibile, del mistero, di un’inconoscibilità che si sposava quasi naturalmente con la sacralità. Tante le montagne divinizzate – non in quanto dimore di qualche dio, ma in se stesse – che punteggiano il globo; forse la più celebre è l’Ayers Rock/Uluru australiana, vellutato e cangiante monolite nel cuore del continente. Parlare di montagna sacra, vagamente sciamanica, riporta a una tendenza alla divinizzazione della natura che in questa epoca di rinnovata attenzione all’ambiente si riverbera anche nel nostro vecchio e stanco Occidente, affiancandosi a un sincretismo spirituale dove quella che è stata definita la religione-fai-da-te si compone pescando qua e là delle tradizioni più disparate. Ma considerare sacro in sé una montagna o un fiume o un albero o qualunque altro elemento naturale è cosa ben diversa da cercare un punto di contatto con la trascendenza, dove cioè lo spazio naturale, in sé neutro, viene sacralizzato da un’apposita azione umana – reale o immaginaria. Si assiste di questi tempi a una certa leggerezza nel maneggiare un concetto e una parola come “sacro”: la sacralità della natura non deve correre il rischio di essere declinata nella forma di una sua intoccabilità.

Il cristianesimo al contrario mostra come la custodia del creato sia azione attiva di cura, di intervento e di impegno sull’ambiente circostante, che viene dotato di significato solo grazie alla presenza umana. Sul versante opposto l’ideologia ambientalista esalta la cosiddetta sacralità della natura spingendo sul tasto della dannosità di ogni intervento umano, fino ad arrivare sostanzialmente – anche se magari non esplicitamente – alla considerazione dell’uomo quale cancro del pianeta.

È di queste settimane la proposta di individuare una montagna sacra anche in Italia, con il divieto più o meno tassativo di ascensione, con la motivazione assai blanda e assai turistica di festeggiare i cent’anni di un parco nazionale. Usare il sacro come strumento di promozione turistica richiama alla mente quegli aborigeni australiani che con una mano indicano l’Ayers Rock chiedendo di rispettarne la sacralità, e con l’alta incassano gli introiti della vendita dei biglietti per l’ascensione. Altro discorso è progettare il sacro, è l’opera di sacralizzazione compiuta dall’uomo: per esempio, le nostre montagne pullulano di croci, edicole e cappelle – forse fin troppe. Ma la loro presenza attesta la volontà dell’uomo di stabilire, proprio in quei punti così naturalmente protesi verso la trascendenza, un contatto con essa. Eppure, eppure… eppure anche la persona meno amante della montagna, quando si trova immersa nel silenzio, nell’aria rarefatta, nello scintillio delle nevi in alta quota, non può fare a meno di avvertire un’apertura d’animo, un respiro, una sorta di elevazione verso l’infinito.
È facile, nei nostri tempi di scarsa educazione religiosa, scambiare questa nostra umanissima propensione al sacro favorita dalla montagna con il sacro in sé. Sappiamo che su questa terra l’infinito non si raggiunge ma si anela e si ricerca; e sappiamo anche, come ci ripetono da secoli scrittori, filosofi e alpinisti, che, senza l’uomo che la osserva, la montagna non sarebbe altro che una grossa pietra.