Presentazione di tre pubblicazioni sul tema

JF
Johnny Farabegoli
Hans Ulrich Obrist, A che cosa serve l’arte, Marsilio, Padova 2023, pp. 128
Anna Detheridge, Scultori della speranza, Einaudi, Torino 2012, pp.300
Yehudi MenuhinL’arte speranza dell’umanità, Rueballu, Palermo 2008, pp.128

Vogliamo qui segnalare tre testi, editi in tempi relativamente “recenti” e di autori appartenenti a contesti culturali differenti, ma con sguardi “complementari”, che hanno posto la questione dell’arte come forma di speranza. Questi sono: L’arte: Speranza dell’Umanità (Rueballu, Palermo 19961, 20082, pp.126) di Yehudi Menuhin (scomparso nel 1999), uno dei più grandi violinisti del Novecento, di origine ebraica e particolarmente attivo nella difesa dei valori della pace e della fratellanza; Scultori della speranza. L’arte nel contesto della globalizzazione (Einaudi, Torino 2012, pp.300) di Anna Detheridge, giornalista e saggista, curatrice di diverse mostre e rassegne, oltre che docente al Politecnico di Milano, all’Università Bocconi e allo Iulm; A che cosa serve l’arte (Marsilio, Padova 2023, pp.126) di Hans Ulrich Obrist, tra i più celebri curatori di mostre di arte contemporanea, oltre che saggista e direttore artistico di alcune importanti gallerie, come la Serpentine Gallery di Londra.

È significativo che in tutti i tre i saggi l’arte, nelle sue molteplici e poliedriche manifestazioni, sia interpretata, antropologicamente, alla luce di una duplice dinamica “visiva”: da una parte quale “sguardo” critico dissolvente che con lucidità disvela le molteplici contraddizioni del reale, dall’altra, come “sguardo” rinnovato che può aprirci la vista (interiore) a possibili orizzonti di alterità: orizzonti che il nostro logos programmatico e raziocinante spesso sembra volerci precludere. Yehudi Menuhim, nel suo saggio, costituito da un’antologia di testi, in buona parte conferenze tenute in varie parti del mondo (tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Ottanta) su varie tematiche di grande cogenza (quali l’ambiente, la società dei consumi, l’idea di stato e di felicità), restituisce un focus convergente di particolare importanza sul fenomeno artistico quale «culmine di un processo vivente, ininterrotto», capace di riscattare l’uomo dalla mediocrità dell’orizzonte quotidiano.

All’arte, intesa anche nella sua declinazione operativo-artigianale, è così attribuita una particolare forza persuasiva, ovvero quella di risvegliare nell’osservatore-ascoltatore una più mirata consapevolezza nella straordinaria ricchezza insita in ogni dimensione interiore, ma non come ripiegamento e chiusura, ma come apertura a più ampi orizzonti di senso: aspetto, questo, di fondamentale importanza soprattutto nella nostra contemporaneità, dove «le nostre percezioni visive e uditive sono diventate più grossolane» e in cui tutto appare «consumato rapidamente» e «calcolato» per un uso immediato.

L’arte, attraverso i suoi ritmi, le sue proporzioni e i suoi gesti, può invece suggerirci un «orientamento» all’interno della nostra quotidianità caotica, sempre più segnata da «rumori e tumulti». Ma la prospettiva di Menuhim è connotata da un’istanza di natura “profetico-antropologica”, nella convinzione che tutti gli uomini in quanto animati da aspirazioni creative, possono essere, in modalità diverse, artisti (e proprio questa è la chiusura “utopica” del libro: «Tutti gli uomini sono artisti»), ma solo nella misura in cui l’uomo non si affidi alla mera tecnica, presupponendo di costruire «un cielo perfetto sulla terra», a scapito di una ricerca ben più importante, che è quella sulla propria «dimensione interiore». E proprio l’arte è l’unica in grado di poter aprire un vero e proprio varco nel recinto angusto delle molteplici certezze, in quanto solo l’artista, con la sua opera, può offrirci «un’anticipazione dell’unione con l’universale e l’eterno», che «ci invita a seguire qualcosa di superiore», che è il vero volto della speranza.

Anche il saggio di Anna Detheridge mantiene lo sguardo rivolto ancora una volta ad un orizzonte che fa della quotidianità un terreno di confronto particolarmente serrato, al cui interno sono coinvolte molteplici esperienze – azioni – artistiche a partire dagli anni Sessanta fino ai nostri giorni, non ultime anche le molteplici istanze nell’ambito della costruzione dello spazio pubblico. Qui l’orizzonte della produzione artistica – con particolare attenzione all’arte concettuale, ma non solo – si staglia contro una dimensione del reale esposta ad evidenti molteplici contraddizioni: contraddizioni verso le quali gli artisti non sembrano voler far sconti interpretativi disvelando, del reale stesso, “mistificazioni” o false vie d’uscita, mettendo in discussione la stessa capacità di comprenderlo attraverso formule logico-rassicuranti. E così, come le mappe di Alighiero Boetti oppure le azioni di Joseph Beuys, solo per citare alcuni esempi, l’agire dell’arte si configura come un vero e proprio sistema di “interventi” capaci di incidere sul quotidiano.

Arte quindi come sistema di pensiero, di capacità critica, ma anche autocritica, attraverso cui, come sottolinea la stessa autrice, non poche espressioni artistiche «hanno messo in dubbio la funzione stessa della rappresentazione artistica, minando le basi del proprio linguaggio», per assurgersi a potente antidoto nei confronti di ogni rigido perimetro ideologico, ma al tempo stesso offrendo un nuovo sguardo oltre la cortine delle evidenze più scontate, se non addirittura ampiamente condivise. Ma tutto questo fare dell’arte non va inquadrato all’interno di un puro agire in libertà, ma va collocato in una più ampia prospettiva sociale, in cui lo sguardo etico appartiene agli elementi guida di ogni processo creativo.

E proprio su quest’aspetto insiste particolarmente Anna Detheridge, là dove osserva che chi ha dimostrato nel tempo «una comprovata capacità di intuire e sintetizzare gli aspetti salienti del nostro caotico divenire» è sempre colui che muove da un “agire” «sostenuto da un profondo impegno etico». Non diversamente dal volume di Menuhim, anche questo importante lavoro si conclude con un affondo intorno al tema dell’Arte come speranza (l’Arte come speranza è infatti l’ultima conferenza pubblicata nel testo di Menuhim di cui si è scritto sopra e tenuta al Royal Scottish Museum di Edimburgo il 20 luglio 1982), in cui a partire sia da alcune riflessioni dell’artista e filosofo argentino Tomás Maldonado sull’importanza della “progettualità” contenute nel suo saggio La Speranza progettuale. Ambiente e società (Einaudi, Torino 1970), sia da alcune tracce teoriche della ricerca fondativa del filosofo Ernst Bloch apparse su Il principio speranza (scritto fra il 1938 e il 1947, riveduto nel 1953 e nel 1959; cfr. ed. Garzanti, Milano 2005, con introduzione di R.Bodei), la Detheridge osserva che proprio questa speranza, prospettata dai fenomeni artistici, si fonda sul concetto di creazione artistica quale «narrazione esagerata di un’illuminazione anticipatoria della realtà che vediamo intorno a noi», capace di aprire uno spazio dialetticamente dinamico: uno spazio che non vuole però configurarsi come risposta decisiva, in quanto, osserva ancora la Detheridge, a conclusione del suo saggio, «l’incessante movimento del mondo è, fin dai tempi di Aristotele, una entelechia incompleta, una ricerca che l’uomo non può che rinnovare eternamente».

A conclusione, segnaliamo il terzo volume, ovvero il breve saggio di Hans Ulrich Obrist, A che cosa serve l’arte, che si configura nella forma di una vera e propria dichiarazione d’intenti che per contenuti si attesta quale fil rouge presente sicuramente anche nei precedenti due saggi, pur nella diversità di prospettive storiche analizzate, scrittura ed esperienze artistiche citate. Ed è significativo che anche in questo breve saggio appaia ancora una volta un paragrafo dal titolo specifico: L’arte come forma di speranza. Proprio in questo titolo appare il senso più profondo di questo lavoro di Obrist – denunciato palesemente dallo stesso autore -, là dove dichiara che ciò che più lo ha sollecitato nella sua lunga esperienza di curatore di mostre, e di incontri internazionali sull’arte, è sicuramente quanto affermato dal pittore tedesco Gerhard Richter durante un’intervista rilasciata allo stesso Obrist, ossia che «l’arte è una forma di speranza» (in un altro contesto lo stesso Richter affermerà che «l’arte è la forma più alta di speranza!»): frase, chiosa Obrist, «che tengo a mente ogni giorno».

E qui, l’autore dispiega il senso più profondo del suo pamphlet, annotando: «Credo che la varietà dei linguaggi delle arti contemporanee costituisca una delle più confortanti forme di resistenza al progressivo uniformarsi dei modi di vivere, grazie alla creazione infinita e formidabile di commistioni locali e alla capacità inesauribile di coltivare la diversità. Non solo la biodiversità vegetale e animale, e umana, ma anche la varietà di impronte linguistiche, fonetiche, intellettuali». Non c’è dubbio che queste considerazioni trovino il pieno accordo degli autori citati. Un accordo all’insegna dell’arte come speranza – e al tempo stesso “visione critica” – offerta alla coscienza della nostra contemporaneità, troppo spesso sedotta da un conformismo sempre più dilagante.