Leggere la Bibbia con gli occhi del cuore

A TradigoAlfredo Tradigo

 

Fin dagli inizi del cristianesimo l’arte è stata come un quinto Vangelo non scritto, una fonte a cui tutti, anche chi non sapeva leggere, poteva attingere con lo sguardo e con il cuore. Anche un bambino poteva incantarsi davanti a quelle immagini affrescate sui muri e chiedersi chi fossero i personaggi e che senso avessero le storie che Giotto, per esempio, ha creato sulle pareti della cappella Scrovegni. Si parla di Bibbia dei poveri – Biblia pauperum – o degli illetterati, ma in realtà dietro quelle immagini, all’apparenza così semplici, esiste, in filigrana, un copione ben preciso e complesso che il pittore ha seguito. E che nei secoli è stato riassunto in veri e propri manuali illustrati ad uso degli artisti – le Bibliae pauperum – di cui i primi esemplari risalgono alla metà del XIII secolo. Queste raccolte di incisioni, veri e propri libri, ebbero larga fortuna nel Cinquecento con l’avvento della stampa a caratteri mobili che, a partire dalla Germania, si diffusero in tutta Europa. Questi manuali hanno contribuito a formare un linguaggio artistico comune a tutta la cristianità, una lingua europea che da Giotto arriverà fino al Novecento.

Sfogliando un esemplare di Bibbia pauperum olandese del 1470, conservata alla Biblioteca Estense di Modena, ci si rende conto che in realtà questa “Bibbia per i poveri” ha una complessità di lettura teologica tale da richiedere il rimando continuo alle fonti dei Padri. Nella Bibbia di Modena vengono proposte 40 tavole incise che illustrano altrettanti passi evangelici, dall’annuncio alla gloria, Ad esse vengono comparate 80 scene veterotestamentarie, in un gioco visivo non sempre facile da capire, fatto di nessi e rimandi, e chiariti da ampie didascalie a caratteri gotici. Quasi un fumetto ante litteram. Nell’insieme ci si trova tra le mani una vera e propria Bibbia figurata. Ogni tavola è occupata da una xilografia a piena pagina a forma di trittico che mostra al lettore due immagini dell’Antico Testamento inserite nei riquadri laterali mentre al centro si trova un episodio del Vangelo. Un esempio. Cristo risorto schiaccia le porte degli Inferi e due episodi biblici lo affiancano: Gedeone che divelle le porte di Gaza e Giona che esce dal ventre della balena. Se Giona e Gedeone anticipano la figura di Cristo, tanto più Elia e Mosè, i grandi mistici che “vedono Dio”, ne sono gli indiscussi profeti. Li ritroviamo nel trittico successivo in due episodi laterali che anticipano la Trasfigurazione in cui appaiono con Gesù sul Tabor.

Sansone
Sansone, Gesù, Giona

Questo approccio immaginifico, spirituale e simbolico apre così all’arte e ai suoi protagonisti una strada privilegiata: quella della visione. Una visione fortemente poetica, in cui tipo e antitipo si rimandano l’uno all’altro, facendo dei personaggi e delle scene bibliche una vera e propria koiné visiva. I testi patristici diventano per gli artisti e i loro committenti una polla d’acqua viva a cui attingere, ricca di immagini e paragoni che sembrano fatti apposta per essere tradotti in forme e colori.

Questo tipo di esegesi biblica – che non è la sola possibile – non deve sembrare una arbitraria forzatura perché è suggerita e ispirata da Gesù stesso nei Vangeli in varie occasioni. Un esempio: “E come Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra” (Matteo 12,39). Tre secoli dopo sant’Agostino richiama in poche limpide parole – che sono un “manifesto” – le fondamenta di questa “corrente”: «Nel Testamento Antico è nascosto il Nuovo, e in quello Nuovo l’Antico diventa chiaro».

Seguendo il percorso di questo fiume sotterraneo che alimenta tutta la storia dell’arte cristiana ecco alcune tappe significative. Un affresco del III secolo che si trova nelle catacombe di santa Priscilla a Roma mostra i tre fanciulli prigionieri nella fornace ardente di Nabucodonosor, accompagnati da un quarto uomo, un angelo. Secondo l’interpretazione di san Girolamo, la presenza dell’angelo allude a Cristo che libera le anime dalle fiamme dell’inferno mentre l’immagine dei tre soldati davanti alla fornace rimanda a quella delle guardie davanti al sepolcro di Gesù.
Un’altra pagina evangelica – quella del buon samaritano – è illustrata in un manoscritto greco del VI secolo, il codice purpureo di Rossano Calabro. Il miniaturista rappresenta Gesù nelle vesti del buon samaritano (si riconosce dalla tunica e dal nimbo crociato). Scrive Origene: “il samaritano è Cristo stesso, più vicino all’umanità della Legge e dei Profeti” (Omelie sul Vangelo di Luca 34, 3). È Lui che dopo il sacerdote (il profeta) e il levita (la legge) soccorre l’anima di Adamo (l’uomo vecchio caduto e ferito dai peccati) e la cura con olio e vino, (i sacramenti), per affidarla infine a san Pietro (l’albergatore).

Buon Samaritano
Buon Samaritano miniatura dal Codex purpureus rossanensis

Sessantaquattro anni dopo l’uscita della prima Biblia pauperum (l’anno 1250 secondo l’Enciclopedia medioevale) nasce in Italia il più grande e innovativo ciclo di affreschi di quei tempi, una vera e propria Bibbia murale, le cui dimensioni nell’insieme fanno pensare ad una serie di gigantografie proiettate sulle pareti della cappella di Enrico Scrovegni a Padova. Siamo nell’anno 1306 e nel suo progetto iconografico Giotto prevede che le grandi scene evangeliche siano precedute da piccoli riquadri in cornice con storie, immagini e figure dell’Antico Testamento. Proprio come abbiamo visto nelle pagine della Biblia pauperum estense. Così, l’immagine di Elia che sale in cielo sul carro di fuoco, è circoscritta in un piccolo riquadro che precede l’Ascensione. Altri riquadri presentano Mosè che fa scaturire acqua dalla roccia in rapporto al miracolo delle nozze di Cana. E infine, la Creazione di Adamo è connessa alla Resurrezione di Lazzaro.

Elia
Elia rapito su un carro di fuoco

Due secoli dopo, nel Cinquecento, grazie anche alla diffusione a mezzo stampa dei modelli iconografici delle Bibliae pauperum, le scene dell’Antico Testamento acquistano dimensione, importanza e dignità pari a quelle del Nuovo. Negli affreschi di Bernardino Luini nella chiesa milanese di san Maurizio (1503-1509) le scene dei due Testamenti sono affiancate o sovrapposte e hanno la stessa dimensione. La medesima cosa si ripete negli affreschi dei fratelli Campi (1550) in santa Margherita e Pelagia a Cremona. Scene evangeliche e bibliche uguali e parallele. L’Antico ha la stessa importanza del Nuovo. Siamo lontani dalle citazioni bibliche – “in sordina” – di Giotto.

Un salto ancora più profondo avviene nell’arte religiosa del Seicento. Un cambiamento coraggioso, radicale, che cambia la storia della pittura sacra e l’affranca dallo schema didascalico e ripetitivo delle Bibliae pauperum. Grandi artisti come Rembrandt anziché accostare i due Testamenti, cercano in una sola immagine la sintesi visiva tra Antico e Nuovo. Così nel Sacrificio di Abramo (1635, Ermitage) una scena sola raduna momenti temporalmente diversi e lontani. L’anziano patriarca, pur apparendo nelle vesti del padre che sacrifica il figlio, in realtà nasconde (e rivela) le fattezze di Dio Padre che sacrifica il Figlio sulla croce. Del resto, Isacco è da sempre immagine di Gesù innocente che sale portando sulle spalle la legna, immagine della croce. Così Teodoro Studita: “Abramo prefigurò la croce quando legò il figlio sulla catasta di legna”. Il gesto di Abramo è di struggente, disperato amore. Lo stesso gesto, la stessa potenza teologica ritroveremo nel Sacrificio di Abramo di Marc Chagall.

Anche Giuseppe venduto dai fratelli ai mercanti ismaeliti è immagine dell’innocente Cristo venduto per trenta denari. Nell’affresco di Raffaello nelle Logge Vaticane (1517-1519, così come nella tela del pittore friulano Antonio Paroli (Gorizia 1688-1768) e nell’affresco del pittore tedesco Friedrick Overbeck (1789-1869), il tema si ripete nella sua iconografia. Il ragazzo, spogliato dalle sue vesti, a capo chino e con i polsi legati, è l’icona stessa dell’Ecce Homo. E l’immagine di Giuseppe sdraiato sopra la cisterna, richiama Gesù disteso sulla croce.

Nel Novecento l’arte si libera da ogni schema, non solo ideologico ma anche formale. Eppure, proprio in questa libertà, avviene il miracolo. Se la più grande Bibbia medioevale affrescata è quella di Giotto, il Messaggio biblico (Nizza) di Chagall, la sua Bibbia illustrata, rappresenta un punto d’arrivo insuperato che parla a credenti e non credenti. Anzi, forse di più a questi ultimi. Chi più dell’ebreo Chagall, fuggito a causa della persecuzione antisemita dal suo villaggio di Vitebsk, approdato in Europa e poi fuggito di nuovo in America poteva interpretare in chiave antica e moderna insieme la Bibbia? E unire i due grandi spezzoni della Storia Sacra, la religione ebraica e la cristiana? Uomo di pace, Chagall fa la sintesi tra i due mondi. Dipinge un crocifisso (scandaloso per un ebreo) dove al posto del perizoma mette uno scialle di preghiera ebraico (tiallin). In lui Antico e Nuovo “si baciano”, come la pace e la giustizia nel salmo 85.