Mostre

Maddalena. Il mistero e l’immagine

Tiziano
Tiziano Vecellio, Santa Maria Maddalena penitente, 1566-1567, Napoli, Museo di Capodimonte

Dal 2006 la città di Forlì propone importanti esposizioni intorno a temi e ad artisti di fama mondiale, tra i quali Canova, Van Gogh, Piero della Francesca, Raffaello, Hayez, Segantini e tanti altri. Quest’anno, dal 27 marzo e fino al 10 luglio, la Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì presenta un grande evento espositivo dal titolo Maddalena. Il mistero e l’immagine, curato da Cristina Acidini, Fernando Mazzocca e Paola Refice, allestito nell’ex Chiesa di San Giacomo e nella biblioteca del Convento di San Domenico. Il percorso si sviluppa in 12 sezioni che racchiudono un tesoro fatto di pitture, sculture, miniature, arazzi, argenti e opere grafiche, di importanti artisti di ogni epoca. Tra le opere in mostra ricordiamo quelle di Donatello, Andrea della Robbia, Giovanni Bellini, Tiziano Vecellio, il Tintoretto, Annibale Carracci, Lorenzo Lippi, Guercino, Artemisia Gentileschi, Guido Reni, Anthon Raphael Mengs, Jòsef Wall, Eugène Delacroix, Arnold Böcklin, Gaetano Previati, Fausto Melotti, Giorgio De Chirico e Renato Guttuso. Si tratta di opere prestate da musei importanti, d’Europa e del mondo, inclusi alcuni prestigiosi prestatori italiani. Il progetto espositivo, ideato e realizzato dalla Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì prevede la collaborazione del Comune di Forlì e dei Musei di San Domenico. Lungo l’itinerario il visitatore può fruire di un’esperienza digitale unica, interattiva per dare vita ad alcune delle opere esposte, scaricando l’app MaddalenaAR. L’iniziativa inoltre è corredata da un prezioso catalogo edito da Silvana Editoriale. Il titolo della mostra, Maddalena. Il mistero e l’immagine è un viaggio attraverso una sequenza di immagini affascinanti intorno all’identità sfaccettata di questa donna, che si è creata nel tempo: la Maddalena è peccatrice, penitente, santa, eremita, cortigiana. Nell’arte è sicuramente il personaggio femminile più rappresentato del Nuovo Testamento, dopo la madre di Gesù, Maria.

Artemisia
Artemisia Lomi Gentileschi, Santa Maria Maddalena, 1640, Beirut, Sursock Palace Collection, courtesy Arthemisia.

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I pochi versetti, che i Vangeli le dedicano, raccontano della sua presenza nel gruppo di donne che seguiva Gesù e che lo sosteneva materialmente. Donne «guarite da spiriti cattivi e da infermità» (Lc 8,2), come i sette demoni usciti da Maria di Magdala. Insieme ad alcune donne assisterà alla morte e alla deposizione del corpo di Gesù e acquisterà gli oli aromatici per imbalsamare il suo corpo. Prima testimone della resurrezione, Maria di Magdala verrà confusa nella tradizione cristiana con almeno altre due donne: la peccatrice perdonata e Maria, la sorella di Marta e di Lazzaro, amici di Gesù.
Nei Vangeli apocrifi diventerà simbolo della Sapienza e modello esemplare per la fede; nel Medioevo, il vescovo domenicano Jacopo da Varazze con la sua Legenda aurea, ispirerà una ricchissima produzione di opere d’arte sulla Maddalena. Accanto al tema centrale della fede e del cammino di penitenza nella nuova vita, ogni artista renderà visibile in modo unico l’identità sfaccettata di questa donna fatta di peccato e grazia, mondanità e penitenza, piacere e rinuncia. Profondamente umana, la Maddalena è un personaggio che affascina e coinvolge perché in lei è contemporaneamente presente l’umanità e la forza della grazia divina. L’arte ha reso visibile tutto ciò e la mostra forlivese sprigiona un fascino e una bellezza unici attraverso un viaggio nella storia dell’arte, che si rivela essere anche un percorso che interroga, affascina e rende partecipi dell’umana e poliedrica bellezza della Maddalena.
Roberta Foresta


La Passione. Arte italiana del ‘900

Arte italiana del ‘900 dai Musei Vaticani. Da Manzù a Guttuso da Casorati a Carrà

Montanari
Giuseppe Montanari, Il bacio di Giuda (1918)

Se l’orizzonte del dialogo tra arte del Novecento e Chiesa appare complesso e a tratti segnato da elementi di manifesta conflittualità, l’interessante mostra allestita presso il Museo Diocesano di Milano, Carlo Maria Martini (aperta fino al 5 Giugno), dal titolo La Passione. Arte italiana dal ‘900 dai Musei Vaticani. Da Manzù a Guttuso da Casorati a Carrà, curata da Micol Forti (curatrice della Collezione d’Arte Moderna e Contemporanea dei Musei Vaticani) e Nadia Righi (direttrice del Museo Diocesano Carlo Maria Martini), non solo rappresenta un esempio virtuoso di collaborazione fruttuosa tra due importanti istituzioni museali ecclesiali, ma soprattutto una limpida testimonianza di come questo dialogo, almeno nel nostro paese, non si sia mai completamente interrotto.

Sicuramente si tratta, come ha sottolineato in più occasioni Micol Forti, di un “amore inquieto”, a tratti contrastato, e questa mostra è proprio un tentativo di evidenziare come gli artisti, pur nella loro diversità espressiva e complessità di linguaggi – e anche di posizioni personali nei confronti della Chiesa – non si siano mai sottratti ad un confronto con le questioni centrali insite nel rapporto uomo fede, declinandole in un ambito, come quello del Novecento, segnato da eventi tragici – come le guerre – e progressivi smarrimenti ideologici. Anzi, verrebbe quasi da pensare che proprio la dimensione di questo disorientamento – dai tratti tragici – abbia sollecitato ancor più quelle domande di senso che ogni artista pone nei rispetti della “propria” contemporaneità. E d’altronde quando un’esperienza artistica si pone come autentico interrogare e finanche tentativo di rappresentare le molteplici contraddizioni insite nell’uomo, questa si attesta inevitabilmente come inquieto e profondo desiderio di oltrepassamento del mero dato reale. E proprio l’inquietudine che spinge a varcare i limiti insiti del reale, per aprire lo sguardo ad un orizzonte altro, è la cifra che ha sempre caratterizzato la ricerca artistica più autentica, ed in particolare le ricerche artistiche del Novecento. D’altronde, un’arte come quella del XX secolo, pienamente “immersa” nella dimensione della vita e delle sue molteplici contraddizioni, non poteva, come sostiene Micol Forti, non attingere ad un “ineffabile” rendendolo quasi tangibile agli occhi di uno spettatore. E così Nadia Righi nel piccolo e prezioso catalogo della mostra spiega che nelle sale allestite si è cercato «di dare ragione della ricchezza e delle sfaccettature degli stili, della pluralità dei linguaggi che convivono nel corso del Novecento, ma anche dei diversi atteggiamenti nei confronti dei modelli di una, a volte, ingombrante tradizione pittorica. Sia pure in questa inevitabile diversità, è tuttavia possibile scorgere un fil rouge, costituito da una tensione spirituale mai sopita, presente in ogni uomo indipendentemente dalla propria fede» (N.Righi, Le ragioni della mostra, in La Passione. Arte italiana del ’900 dai Musei Vaticani. Da Manzù a Guttuso da Casorati a Carrà, Silvana Editoriale, Cinesello Balsamo 2022, p. 16).

Fiume
Salvatore Fiume, Flagellazione, 1954

Opportunamente, il percorso espositivo è stato articolato attraverso alcune “immagini” salienti che caratterizzano la narrazione evangelica della Passione, quasi a rendere testimone partecipe, degli eventi della salvezza, lo stesso visitatore. Sicuramente, questo è un aspetto importante della mostra, in quanto la disposizione tematica delle opere non vuole configurarsi quale mera sequenza espositiva, ma vuole essere anche “cammino” partecipato del fruitore che si trova così introiettato nel mistero stesso della Passione di Cristo, attraverso alcune grandi stazioni “iconografiche” di una Via Crucis dalla forte valenza espressiva. Non quindi un semplice itinerario espositivo-museale, ma un vero e proprio pellegrinaggio dell’anima attende il visitatore, che dal Bacio di Giuda giunge fino alla pienezza della Resurrezione. Vale la pena qui ricordare solo alcune tappe di questo mirabile percorso. L’incipit è costituito proprio dal Bacio di Giuda, nelle due versioni di Giuseppe Montanari (1918) e Felice Casorati (1962), entrambe dominate, come sottolinea Nadia Righi, da un’atmosfera di poetico e rarefatto silenzio, in cui l’azione appare cristallizzata e senza tempo. Mirabile la gipsografia stampata su carta carbone con inchiostro grigio di Casorati, nella cui scena affollata attorno alla figura di Cristo si intuisce un riferimento palese al medesimo tema rappresentato da Giotto per la Cappella degli Scrovegni a Padova, qui ridotto all’essenzialità delle linee e dei segni rapidi che contraddistinguono i volti dei presenti. Più onirica la “visione” di Montanari, in cui i due protagonisti, Giuda e Cristo, sono soli sotto la luce chiara della luna (che nella tradizione simbolico-cristiana rimanda alla Chiesa).

Carena
Felice Carena, Deposizione, 1938-39

Qui l’elemento di originalità è la prospettiva dal basso verso l’alto, espediente utilizzato per dare maggiore corpo ai due protagonisti, rendendoli così presenza viva allo sguardo del visitatore. La narrazione della Passione si snoda successivamente con la Flagellazione (1954) del pittore siciliano Salvatore Fiume, un’opera (olio su carta su masonite) ispirata evidentemente all’ammirazione dell’artista per il Rinascimento e in particolare per l’omonimo soggetto di Piero della Francesca. L’opera si configura come rappresentazione del dramma puramente umano sopportato da Cristo durante il processo presieduto da Ponzio Pilato, uno degli episodi più cruenti degli ultimi momenti della vita di Gesù, narrato da tutti i Vangeli canonici. Qui Cristo appare ormai privo di sensi, mentre il flagellante continua ad infierire ancora sul suo corpo. Tra le opere dedicate al tema della Crocifissione, vanno sicuramente menzionate: la Crocifissione, omaggio a Martin Luther King Jr. (1968) di Mirko Basaldella, in cui un’affollata scena, satura di personaggi e di dinamici cromatismi, accentua la drammaticità dell’evento rappresentato; il Crocifisso (1955) di Carlo Carrà dalla cui scena appare totalmente assente il dinamismo di Basaldella, mentre tutto il campo visivo appare focalizzato sulla figura umana del Cristo, da cui emergono il volto ed il corpo sofferente in uno spazio assoluto in cui è scomparso anche l’elemento iconografico più tradizionale qual è la croce, per dar spazio al corpo-croce di Gesù stesso, vero e proprio “luogo” della redenzione; l’espressiva Mano del Crocifisso (1965) di Renato Guttuso, in cui riecheggia, quale fonte d’ispirazione formale, l’Altare di Isenheim di Matthias Grünewald e dove per Guttuso non serve più l’intera scena della crocifissione per esprimere il senso del messaggio cristiano, ma solo un dettaglio che evidenzia una morte che, seppur tragica e violenta, è anticipatrice di una prospettiva salvifica. Sicuramente L’uomo crocifisso (1943) di Ottone Rosai, acquisito dai Musei Vaticani nel 1973 in seguito ad una donazione di Amintore Fanfani, appare tra i più radicalmente “postumi” e contestuali, proprio per gli avvenimenti bellici che stanno segnando la nostra attualità. Qui il tema sacro della crocifissione viene trasfigurato per esprimere una posizione critica nei confronti della contemporaneità: le ciminiere delle fabbriche, simbolo della città moderna, sostituiscono il più tradizionale paesaggio desertico, mentre l’autoritratto dell’artista, raffigurato nei panni dell’uomo comune, prende il posto di Cristo sulla croce, quasi a sottolineare come l’evento della Passione e delle sofferenze di Cristo si staglino come condizione comune della nostra contemporaneità. Il rosso dello sfondo, una città che brucia, metafora del martirio degli uomini in guerra, sembra “profeticamente” alludere alla tragicità del nostro presente: un presente segnato dal drammatico moltiplicarsi di conflitti bellici che sembrano non aver più fine.

Particolarmente coinvolgente, è l’imponente Deposizione (1938-1939) di Felice Carena, che manifesta l’interesse del pittore per i grandi artisti del passato, quali Bellini, Tiziano e Tintoretto. Anche qui, come nel quadro di Rosai, Cristo, specchio ideale dell’uomo, ha le sembianze stesse dell’artista. Al tempo stesso, il suo corpo, esamine, appare tra le braccia di Nicodemo, circondato da un’insolita folla di umili e vinti, oltre che da Maria e san Giovanni. Ancora una volta, l’intento dell’artista è quello di declinare, in una prospettiva di intima quotidianità, il dramma degli eventi della Passione.
Ma ad aprire lo sguardo dello spettatore su di una prospettiva di speranza, significativamente a conclusione del percorso, vi è sicuramente lo straordinario Bozzetto per Resurrezione (1969-1970) in bronzo di Pericle Fazzini, dono dell’artista, che, insieme, allo Studio per Resurrezione (1970-1975) suggella un itinerario espositivo “orientato” verso quel Mistero Pasquale meta di ogni pellegrinaggio cristiano.

Johnny Farabegoli

Dai Romantici a Segantini

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Kaspar David Friedrich, Le bianche scogliere di Rügen, 1818

Visitare la mostra Dai Romantici a Segantini. Storie di lune e poi di sguardi e montagne. Capolavori dalla Fondazione Oskar Reinhart presso il Centro Culturale San Gaetano di Padova, inaugurata il 29 gennaio e aperta fino al 5 giugno 2022 significa compiere un viaggio nella pittura dell’ultimo quarto del ‘700 e della metà dell’’800. La prima tappa del viaggio conduce al paesaggio alpino della Svizzera e della Germania, al luogo del sublime, legato alla stupefazione, occasione stupenda della grande pittura. Ne sono un esempio l’opera di Alexandre Calame, Rocce vicino al Seelisberg, del 1861; Caspar Wolf, Il ghiacciaio inferiore di Grindelwald, del 1774; Robert Zünd, Prato al sole, del 1856. Il viaggio prosegue con il trionfo della pittura romantica che racconta storie di cieli, di lune e di mare, come ne Le bianche scogliere di Rügen di Kaspar David Friedrich del 1818. Il naturalista tedesco Alexander von Humboldt, ammirando l’opera, annotò nel suo diario queste parole: «impossibile trovare una visione di maggiore semplicità, sublime, un’apertura verso il mare che rivela la sua infinita distesa e grandezza». Continuando il viaggio, ci si immerge nel simbolismo internazionale legato alla mitologia degli anni ’50 e ’60 del 1800, con la sua impronta malinconica e quell’esplorazione che anticipa la psicologia contemporanea.

Pan
Arnold Böcklin, Pan nel canneto, 1858

Protagonista indiscusso è Arnold Böcklin, con Pan nel canneto del 1858 e Tritone e Nereide del 1877. Oltre, si viene rapiti dallo sguardo e dal mistero del silenzio dei pittori più popolari in Svizzera, tra i quali Albert Anker con l’immagine meravigliosa dei Piccoli tessitori e Ferdinand Hodler con La convalescente tra le opere più belle. E ancora, dal racconto della vita, con i maestri del Realismo e dell’Impressionismo tra Austria e Germania, tra i quali spiccano Adolph Menzel, definito da Degas il più grande maestro vivente e Hans Thoma con il ritratto della madre nella stanza davanti ad una finestra, con la quale viene posto il tema dell’attraversamento e del rapporto tra l’interno e l’esterno. Lo stupore si fa ancora più grande dinanzi ai colori del paesaggio svizzero tra Otto e Novecento, con Giovanni Segantini, Ferdinand Hodler, Cuno Amiet e Giovanni Giacometti.

In Paesaggio alpino con donna all’abbeveratoio del 1893 circa, stupisce il senso di sospensione cosmica nell’immagine, per la calma, la beatitudine quotidiana e la spazialità quasi immisurabile, tanto da confinare con l’eterno.

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Ferdinand Hodler, Strada per Evordes 1890

Ma anche nell’opera di Ferdinand Hodler, Strada per Evordes del 1890, lo sguardo si trova a contemplare immagini poetiche fatte di colori e di luce che elevano l’anima. Il viaggio termina con le figure femminili di Ferdinand Hodler in Sguardo verso l’infinito, del 1916 donne che stanno tra la realtà, con la loro presenza fisica, e l’immenso, con uno sguardo che sembra andare oltre l’orizzonte.

In Quiete della sera, del 1904 / 1905 circa, Hodler dipinge una figura femminile solitaria, dentro una natura eterna, assoluta, che sembra rievocare un ricordo, una memoria, una previsione. Il tempo della mostra finisce qui, ma il senso di meraviglia, di contemplazione e di bellezza che la visione di queste opere produce accompagnerà sicuramente per lungo tempo il visitatore nel viaggio della vita.
Roberta Foresta