Brancato
Francesco Brancato

Abitiamo un presente sempre più incerto e i contorni del futuro che ci si apre davanti sono sempre meno nitidi e precisi, tanto che si sente parlare insistentemente di “sismicità del futuro”, dal momento che il futuro appare incerto e dai contorni poco definiti e definibili. Tutto questo, di fatto, ci rende più intolleranti nei confronti di risposte conciliatorie e consolatorie alle preoccupazioni del presente; risposte/soluzioni preconfezionate e ad usum Delphini, di fronte agli interrogativi che ci sono imposti dalla vita e dalla morte, tanto che il più delle volte il silenzio rispettoso sembra essere l’opzione più intelligente ed elegante di cui far tesoro.

Ciò detto, non possiamo tuttavia rassegnarci all’“esilio della parola” (Franco Rella) e, aggiungerei, neppure all’esilio delle immagini. Quando, infatti, si verifica la crisi della parola e la debolezza del logos discorsivo, l’arte tenta l’impossibile e in un mondo schizofrenico ­in cui la bulimia delle immagini convive con una mai sopita iconoclastia, prova a dire l’indicibile, a “raccontare” ciò che di per sé sfugge a ogni possibile de-finizione. Non saprei fino a che punto riesca, di fatto, in questa impresa. Certo è che di questo tentativo che dopo tutto appare disperatamente possibile, ne sono testimonianza soprattutto gli artisti. Come non pensare, solo per fare qualche esempio tra quelli a me più cari, a Giovanni Bellini, al Beato Angelico, a Rembrandt, Bosch, Rubens, Tintoretto, per non dimenticare Van Gogh, Rodin, Canova, Bacon, Giacometti, Manzù, e molti altri ancora. Autori, questi, che si sono sforzati di dire l’abiezione dell’uomo, il suo svuotamento, il suo inferno e la sua morte o piuttosto la sua speranza, la gioia di esistere e di vivere.

L’arte, infatti, anche quando è penetrata nelle profondità del cuore dell’uomo e nelle viscere del mondo e della storia, con tutto il loro carico di violenza e di morte, è stata pur sempre un segno del mistero –­ lo è di per sé, non può farne a meno – e quindi postula sempre e comunque un oltre. Mi piace pensare che sia anche questo ciò che Eugenio Montale ha inteso dire quando nella sua poesia L’agave sullo scoglio ha scritto: Sotto l’azzurro fitto / del cielo qualche uccello di mare se ne va / né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto “più in là”. Per questa ragione, aggiungerebbe Paul Valéry, il pittore non deve dipingere quello che vede, ma quello che si vedrà, perché dà voce alle inquietudini dell’homo viator, mai in possesso di una condizione stabile e definitiva, ma sempre alla ricerca, sempre segnato da un continuo domandare.

È quanto, tra gli altri, ha espresso, attraverso il suo originale linguaggio pittorico, un artista come Mondrian il quale ha dato vita a un astratto equilibrio matematico in cui si dà una quiete non quieta, in movimento; un insieme di distinti equipollenti, a significare che le dissonanze, i chiaroscuri, le “profondità”, che nostalgia, attesa, desiderio continuamente producono nel tempo della vita […], non verranno mai completamente eliminati, ma dominati, sì, nella costruzione plastica compiutamente equilibrata (Massimo Cacciari).

In tal senso la speranza di cui l’arte dà conto non è mai il superamento pieno delle contraddizioni del presente, l’approdo riconciliatorio del tortuoso cammino della storia, una finestra spalancata sul domani, la rivelazione del senso nascosto di quel tappeto rovesciato (Sergio Givone) che è la storia e l’esistenza di ogni singolo individuo. L’arte, in effetti, non imbandisce una speranza da discount, e non si rassegna a esercitare una funzione banalmente catartica. Essa, al contrario, sa bene che la bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l’uomo al suo destino ultimo (Joseph Ratzinger).

E che la speranza rischi continuamente di perdere ogni mordente di fronte al mistero della morte, lì dove, al contrario, dovrebbe rendersi “utile”, ce l’ha rammentato, ad esempio, l’arte di Vincent Van Gogh nella quale è evidente che la morte non esiste mai in astratto, ma è sempre morte di chi, nella propria solitudine, “la vive e la muore”: è morte di un presente carico di angoscia e di un futuro da cui è scomparsa la speranza; è morte dell’uomo e, in lui, a causa sua, è morte dell’universo intero che vive, da sempre, un’interminabile agonia. Ed è proprio qui che si incunea la speranza di chi, nonostante tutto, crede contro ogni speranza, perché si tratta di una speranza che non aliena dalle brutture del mondo e non distrae dalle contraddizioni della storia, ma sa fissare lo sguardo su colui che non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi1 e che è penetrato nelle tenebre più fitte della disperazione.

Mi ha sempre colpito, a questo proposito, quanto Camus ha scritto nel suo L’uomo in rivolta: L’agonia sarebbe lieve se fosse sostenuta dall’eterna speranza. Per essere uomo il dio deve disperare, non a caso Grünewald nelle sue Crocifissioni presenta Cristo proprio nel momento della disperazione. È l’esperienza che alcuni mistici hanno chiamato “notte oscura”, vissuta proprio da coloro che hanno abbandonato ormai totalmente ogni cosa, anche le proprie certezze e perfino la propria speranza, e in questo stato di assoluta nudità sono stati disperatamente sostenuti da Dio.

Ciò detto, l’arte, almeno nella mia esperienza personale, è stata e continua a essere un’apertura alla speranza, ma così intesa; una speranza, cioè, che fa i conti con lo scandalo del male, con il nonsenso – veramente tale? – di tante esperienze che segnano l’esistenza; una speranza, tra l’altro, mai privata ma sempre universale, che riguarda l’intera creazione, violata dalla mano dell’uomo.

Quella speranza che Giovanni Bellini “dipinge” nella Risurrezione di Berlino, lì dove staglia il corpo di Cristo solitario nel cielo, e mette in evidenza il significato cosmico e soprannaturale dell’evento. Si tratta di un’opera davvero straordinaria, in cui ogni dettaglio non è lasciato al caso. La vegetazione è lussureggiante ed è descritta nei particolari, a indicare che con la risurrezione di Cristo ha preso inizio la risurrezione e la rigenerazione dell’universo, finalmente pervaso dalla luce che inizia a diradare le tenebre dell’oscurità e della morte.

Bellini insiste su tutto questo anche nel magnifico dipinto della Trasfigurazione conservato a Napoli. In questo caso appare chiara «l’importanza della Trasfigurazione di Cristo intesa come faro di speranza, una lampada che brilla in un luogo oscuro” per coloro che attendono la seconda venuta del Signore2, (Carolyn C. Wilson) e viene ben espressa dall’artista soprattutto grazie alla luce che si espande su tutta la scena, senza alcuna violenza; una luce che si effonde direttamente da Cristo e ritempra l’intero universo in cui si chiarisce il destino di liberazione dal potere dell’oscurità e della morte perché si apre lentamente l’alba del giorno senza tramonto.

Ma non posso parlare della speranza in questi termini senza con questo richiamare immediatamente una delle opere che probabilmente mi ha segnato di più. Faccio riferimento alla pittura murale della Resurrezione realizzata da Piero della Francesca a Borgo Sansepolcro. Si tratta di un’opera in cui è ancora più evidente che la speranza “raffigurata” fa ancora i conti con le lacerazioni della storia e le ferite del mondo.

L’artista, per l’appunto, ci presenta il Risorto che si manifesta come il Vivente-che-era-morto, in un silenzio assoluto, senza alcun testimone umano. Le quattro guardie presenti infatti dormono, sopraffatte dal sonno, e sono incapaci di presenziare a un evento tanto eccezionale quanto sconvolgente. Gli occhi chiusi dei soldati ci parlano del sonno dello spirito, ma anche del sonno della morte, dell’oscurità che avvolge il mondo chiuso a Cristo – via, verità e vita – poiché la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta3. Nel corpo risorto del Cristo è avvenuto quel transito che deve interessare il mondo intero. La morte, ultimo nemico, continua a dominare ancora sulle guardie addormentate, segno dell’umanità ancora soggetta alla caducità e alla corruzione, in attesa della liberazione e della piena manifestazione dei figli di Dio4, e sovrasta la natura brulla e ancora sottomessa alla transitorietà.

È un’atmosfera unica quella che ci consegna Piero con il suo Risorto, il quale con «le sue labbra serrate e il suo sguardo attraversato da “geniale” malinconia» è come se ci dicesse che «la risurrezione non vale affatto per lui come “compimento”», come ci dice ancora una volta Massimo Cacciari, perché ciò che lo attende è la lotta che deve affrontare contro quelle tenebre che non vogliono accogliere la luce vera. Forse anche per questo la vittoria pasquale, la festa della speranza, che il Risorto deve pienamente rivelare e compiere – questa è la missione che ha ricevuto dal Padre suo –, qui appare ancora come il grano buono che cresce insieme alla zizzania. Da qui lo sguardo, colmo di disincanto, di amara conoscenza e di attesa, sul quale si riconoscono, però, i lineamenti della speranza, del Risorto di Sansepolcro.


NOTE
1 Is 53,2
2 2Pt 1,16-19
3 Gv 1, 9-11
4 Cfr Rm 8, 20-23