Tra arte e guerra vi è allo stesso tempo un rapporto di vicinanza e di lontananza. Storicamente, durante il secondo conflitto mondiale, la guerra non è mai riuscita a distruggere completamente l’attività artistica. L’autore si sofferma sul valore umanizzante dell’artista nel tempo in cui la guerra tende ad annientare tutto. Ne è testimonianza la storia di Aldo Carpi, pittore deportato nel campo di concentramento di Gusen in Austria, o ancora la vicenda del pianista polacco Wladyslaw Szpilmann, che con la sua musica riesce a toccare il cuore di un ufficiale tedesco. L’arte è in grado di risollevare l’uomo dal male, toccandolo con la bellezza, che si manifesta con il volto della grazia e del bene.
Don Busi

Gianluca Busi

Ospito da diverse settimane nel mio laboratorio d’iconografia bizantina, un’artista ucraina, proveniente da una città di medie dimensioni a ridosso della Crimea, occupata fin dal primo giorno di guerra dall’armata russa. È arrivata fortunosamente da profuga in Polonia, dopo aver trovato posto in un convoglio di corridoi umanitari in uscita dalla sua città, ricercato dopo tanti tentativi andati a vuoto per interi giorni. È letteralmente scappata dalla sua abitazione con una borsetta e un piccolo zainetto, arrivata a Bologna ci ha stupito perché non aveva con sé nemmeno le ciabatte, ma ancora più stupefacente per me quando mi ha mostrato un grande disegno da lei eseguito su un cartoncino abbastanza spesso per assorbire la tempera all’uovo e piegato in più parti dell’icona della Natività di Andreij Rublëv del tardo XV secolo: aveva pensato di portarlo con sé nello zainetto.

Ora, non mi sono permesso di formulare una domanda diretta, di chiederle cioè perché fra le tante cose essenziali che si potevano prendere con sé avesse pensato a questo grande disegno, lasciando da parte altri oggetti che certamente sarebbero risultati più utili e necessari. Ho preferito cercare la risposta da solo, dopo che questo particolare dell’ingombrante disegno nello zainetto mi aveva fatto pensare molto. Oltretutto questo disegno, lo aveva già eseguito alcuni fa nel mio laboratorio durante uno stage, e come tutti i disegni, viene poi scansionato e custodito nella memoria del computer, non vi era di fatto nessuna necessità di portarlo dall’Ucraina perché lo si poteva molto semplicemente stampare a partire dal file in memoria.

Questi pensieri mi hanno proiettato immediatamente nell’affascinante ambivalenza carica di contrasto che associa e nello stesso tempo divide l’arte e la guerra. Io immagino, e sono consapevole di avvicinarmi a un pensiero reale che vi fosse in lei una intuizione che potrei tradurre più o meno così: «Ho preso con me questo disegno così voluminoso con me nello zainetto perché pensavo: se un soldato russo mi ferma posso sempre far vedere che in me si nasconde una pittrice di icone: le mie mani possono addirittura dipingere la Madre di Dio. Forse attraverso questo disegno e la sua potenza evocativa in termini artistici e religiosi il soldato potrà vedere la persona di talento che è in me e arrivi a pensare che non si può sciupare o fare violenza alla bellezza che, alla fine, è cifra e vertice rappresentativo della dignità e del dono iscritto in ogni uomo e di ogni donna, ho affidato in qualche modo a quel disegno la mia salvezza personale, per questo ho pensato che fosse indispensabile prenderlo con me».

La provvidenza ha voluto che non le fosse necessario esibire il disegno, ma il ragionamento affascinante e profondo allo stesso tempo che ho tentato di immaginare, mi ha condotto verso alcune riflessioni personali. Io stesso, biograficamente, rappresento in qualche modo l’arte e la guerra. Nel periodo di leva infatti ho servito nei reparti dell’esercito italiano come ufficiale di artiglieria semovente, poi indossata la veste talare del sacerdote, la provvidenza mi ha legato per sempre alla pittura/scrittura delle icone bizantine, penso quindi per certi versi di poter dare un accento in qualche modo biografico alle cose che mi preparo a scrivere.
La guerra può sembrare paradossale ma rappresenta una forma alta di teknè (arte operativa), per questo può diventare cosi attraente agli occhi di molti. M. MacMillian nel suo libro: War. Come la guerra ha plasmato gli uomini, afferma: «Tra tutte le attività dell’uomo la guerra è forse quella meglio pianificata, e ha, di rimando, stimolato una maggiore organizzazione della società, accrescendo il potere dei governi, la guerra è stata fautrice anche di progressi e cambiamenti. Siamo diventati più bravi a uccidere e allo stesso tempo meno tolleranti nei confronti della violenza verso il prossimo». Arte e guerra poi sono stati addirittura associati linguisticamente in uno dei trattati bellici più famosi di sempre; l’opera del generale cinese Sun Tzu, scritta a cavallo fra il V e il VI secolo a.C.

L’autore afferma che la conduzione della guerra è un’opera in certo modo artistica che deve avvalersi, per la sua riuscita proprio dell’ordine e dell’organizzazione e che il suo esito ultimo, nonché frutto più prezioso è la Pace. Anche nelle lingue moderne la parola esercito (italiano), wehrmacht (tedesco), army (inglese), armeé (francese), armija (russo), indica univocamente e praticamente in ogni idioma la capacità di organizzare con la migliore efficienza la gestione di uomini e mezzi in vista di uno scopo. Una parata militare per esempio, può causare su qualcuno una “sindrome di Stendahl” proprio per l’evocazione artistica di ordine e forma estetica realizzata.

L’arte a sua volta, se prendiamo il termine nella sua definizione in senso ampio indicherebbe la: capacità di agire e di produrre, basata su un particolare complesso di regole e di esperienze conoscitive e tecniche, e quindi anche l’insieme delle regole e dei procedimenti per svolgere un’attività umana in vista di determinati risultati: l’arte del fabbro, del medico, del musicista, ecc. Non può sfuggire, l’assonanza linguistica fra arte e guerra, benché nell’immaginario collettivo, la prima venga percepita come la capacità di portare ordine, misura e bellezza mentre la seconda, la guerra, porta come effetto collaterale la distruzione e il disordine paradossalmente attraverso la capacità ordinata di dispiegare i mezzi di cui dispone. Questo ulteriore accento che si media dall’etimologia, rinforza la già accennata ambivalenza che si incrocia nel contrasto fra le forme basilari dell’arte e della guerra, le vuole vicine e lontane nello stesso tempo, alleate ma sempre conflittuali nella loro percezione concettuale.

Fra le associazioni più disparate fra arte e guerra, intessute nell’arco della storia, vorrei concentrarmi su un aspetto di nicchia rappresentato dall’opera degli artisti prigionieri detenuti nei campi di sterminio. La guerra li internò fra tanti altri prigionieri, e immediatamente li giudicò fra i più inutili e inadatti al lavoro, tendendo a scartarli. Ma spesso, e qui si avverte il paradosso, la macchina della guerra spesso non solo poté nulla nei confronti del loro talento, ma fu essa stessa a salvarli dai suoi tipici strumenti di morte e distruzione. Fra gli esempi di queste singolare sinergia fra arte e guerra, in cui la guerra salvò l’arte, ricordo alcuni fra i testimoni più noti.

Inizio con la storia di Aldo Carpi, pittore, deportato a Gusen, campo-satellite di Mauthausen, in Austria, dove soltanto il due per cento dei prigionieri riuscì a sopravvivere. Lui si salvò grazie al suo talento pittorico e fu autore – a rischio della vita – dell’unico vero Diario in presa diretta all’interno di un campo di sterminio. Un uomo, come è stato detto di lui: «Verticale, un Giusto che ha conosciuto e patito le sofferenze più atroci, ma che non si è mai piegato a riconoscere la presenza attiva del “male” nel cuore dei suoi simili». Carpi era nipote di un ebreo convertito al cristianesimo. Eppure, pur essendo cristiano, quest’uomo geniale e all’epoca famoso, titolare della cattedra di pittura all’Accademia di Brera, finì comunque in una retata, in quanto “colpevole” di aver aiutato una sua alunna israelita, che compagni e professori trattavano vergognosamente, come se fosse un’appestata. Aldo la difese, ma proprio un suo collega, lo raccontò ai fascisti, che trasferirono la denuncia alla Gestapo. Fu prelevato a Mondonico, villaggio della Brianza.

Avrebbe potuto fuggire, ma non lo fece per non abbandonare la sua numerosa famiglia. Dopo l’arresto, fu portato a San Vittore. Colpisce subito la sua sensibilità capace di vedere la forma artistica del bene ovunque, leggendo il suo Diario ad esempio nel racconto di un trasferimento fra campi di concentramento, come alcune giovani SS che, pur segnati dalla brutalità, si commuovono per il pianto di due bimbi ebrei disperati che non capivano che cosa stesse accadendo.

Deportato a Gusen, il pittore comprese quasi subito, grazie alla sua straordinaria sensibilità, che il talento artistico lo avrebbe potuto aiutare. Gli erano stati dati pennelli e colori dozzinali e improbabili, ma Carpi se ne servì con perizia, tracciando ritratti di carcerieri e dei loro figli, mogli, fidanzate, magari con l’aiuto di un’ingiallita fotografia, immaginando e traducendo sulla carta paesaggi marini e montani. La macchina della guerra non poté nulla nei suoi confronti ma, al contrario, si fece carico del talento artistico, e invece di spegnerlo lo favorì. A sua volta l’arte liberata comunicò e aiutò l’umanità degli oppressori ad emergere dalle tenebre della coscrizione bellica. Tanti pittori hanno attraversato il dramma dell’internamento, ma attraverso il loro talento non solo si sono salvati dalla prigionia, ma spesso hanno contribuito a umanizzare, in qualche modo i loro stessi carcerieri, rappresentando sulla tela i loro legami affettivi più cari e ultimamente ricordando che non è possibile cancellare il tratto umano che ognuno conserva nelle profondità più nascoste.

Molte volte la letteratura stessa si è cimentata rappresentando vicende vere o verosimili di artisti, salvati dal loro talento nonostante la morsa soffocante delle logiche della guerra. Roman Polanski, nel celebre film da lui diretto nel 2002 il Pianista, tratto dal romanzo autobiografico omonimo di Wladyslaw Szpilmann, uno fra i massimi pianisti polacchi dell’epoca, acclamato dalla critica, vinse la Palma d’oro a Cannes e tre Oscar, considerato ancora oggi fra i più belli e toccanti film di guerra, proprio perché sullo sfondo emerge in filigrana il dialogo fra l’arte e la guerra.

La trama è tratta dal racconto di quanto vissuto dal pianista ebreo dallo scoppio della seconda guerra mondiale con l’invasione della Polonia da parte delle truppe tedesche, coprendo l’occupazione di Varsavia, la creazione, la vita, la fuga e sopravvivenza fuori dal ghetto, fino alla liberazione della città da parte dell’Armata Rossa. La parte culminante della trama inizia nell’internamento nel campo di sterminio di Treblinka nel 1942. Il protagonista, destinato a morte sicura per la gracilità strutturale e l’inabilità ai lavori pesanti, conosce un sorprendente destino in cui si salva grazie all’interessamento per il suo talento musicale dei pochi amici prigionieri rimasti vivi. Prima viene destinato a un lavoro privilegiato e protetto, poi addirittura fatto uscire proditoriamente dal ghetto di Varsavia gli viene data una casa; alla fine di fronte alla distruzione incalzante soggiorna in una soffitta in gran segreto. Lo spessore narrativo si intensifica ulteriormente nella scena in cui un capitano tedesco, anch’esso pianista, lo scopre nella sconfitta in condizioni pietose, smagrito e affamato, ma conoscendo Szpilmann per fama, invece di arrestarlo, lo conduce in una stanza dove c’è un pianoforte e lo invita a suonare.

Władysław lo accontenta eseguendo la Ballata n°1 in Sol minore di Chopin, e l’ufficiale, rimanendo colpito dalla sua esecuzione magistrale, decide di aiutarlo e per i mesi successivi lo nutrirà fino a quando i tedeschi, sotto la spinta dell’attacco sovietico, non abbandoneranno la città: l’ufficiale si congeda da Władysław prima di cadere prigioniero dei russi, donandogli il suo cappotto e chiedendogli il suo nome ma senza dirgli il proprio.

La storia si conclude con la liberazione di Varsavia da parte dell’armata rossa, e l’ufficiale tedesco viene internato a sua volta in un campo di prigionia, dove cerca i favori delle guardie russe, mentre si torva fra una moltitudine di prigionieri dicendo che conosce il pianista Szpilmann ma si sente rispondere con tono ironico: qui tutti lo conoscono e hanno ascoltato la sua musica. Una storia, questa raccontata da Polanski, che ricorda ancora una volta come il talento artistico sia una parola superiore alla logica e ai meccanismi pur così esatti ed efficienti della guerra.

Il mio argomento non poteva a questo punto che raccordarsi con la celebre frase di Fedor Dostoevskij, pronunciata dal Principe Myskin ne L’idiota, che presento nella sua forma allargata e non nel celebre e sintetico slogan. La frase pronunciata da Ippolit suona cosi: «Di che cosa avete parlato? È vero principe che una volta avete detto che la “bellezza salverà il mondo”? Signori» prese a gridare a tutti, «il principe afferma che la bellezza salverà il mondo! ed io affermo che idee così frivole sono dovute al fatto che in questo momento egli è innamorato. Signori, il principe è innamorato, non appena è arrivato, me ne sono subito convinto. Non arrossite principe, mi impietosite. Quale bellezza salverà il mondo?»

Che si possa redimere una condizione compromessa come il mondo che Dostoevskij tratteggia nelle trame cupe dei suoi romanzi, resta il tema di un vero enigma, sospeso peraltro alla natura della ‘bellezza’ che viene chiamata in suo soccorso. Cosa significa qui bellezza? Non si tratta certamente dell’armonioso estetismo che l’umanesimo, da un certo momento in poi, ha posto a fondamento del proprio ideale di un’arte come finestra sul mondo. Si tratta piuttosto dell’intensità sacrale, che può scaturire solo da una vera profondità etica in cui grazia e moralità restano sempre indisgiungibili, ma la cui congiunzione, almeno in questo mondo, appare ogni volta misteriosa e irrealizzabile. Quello di bellezza è il nome che si dà all’inequivocabile manifestarsi del bene. Un insieme di qualità che non hanno necessariamente a che fare con la forma armonica, perfetta e intatta. Quanto piuttosto i tratti dell’irremovibilità con cui la bontà custodisce la propria perseverante giustizia. A costo di tutto. Anche di perdere la perfezione della forma. È il bello del bene. Esso consiste nel fatto che se necessario perde anche la faccia, se questo serve a preservare l’integrità. Si tratta perciò di una bellezza che talvolta non si cura di poter apparire anche brutta se questo resta segno della propria tenacia.

Sembra che si possa allora concludere in questo modo: l’arte e la guerra non sono propriamente antagonisti sullo stesso piano, perché entrambi conservano la tensione verso la perfezione di una teknè, o di una bellezza formale apparente. Ciò che li distingue intimamente quindi sembrerebbe piuttosto l’associazione o la dissociazione dal trascendentale del Bene. Così, se vogliamo esemplificare potremmo dire che nella prigionia l’arte ha salvato il talento dalla potenza distruttiva della guerra per la sua capacità di produrre il bene nelle persone malvagie che incontrava. Al contrario, nella guerra la bellezza formale dell’efficienza volta ad uno scopo perde il suo significato perché ancorata alla dimensione intrinsecamente cattiva della distruzione e della morte.

L’arte e la guerra, appunto, vivono fra assonanze e contrappunti, e ultimamente non è affatto banale distinguerle, sembra questo uno dei motivi per cui, mentre è razionale aborrire la guerra, sembra quasi impossibile creare una memoria culturale che possa difendersi dal suo paradossale fascino. Come è stato rimarcato con profonda acutezza dal Cardinal C. M. Martini «Il bene zampilla da una sorgente più profonda di quella del male ed è tale da sanare la radice stessa del male. Per cui possiamo ancora guardarci intorno con gli occhi della speranza».