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Domenico Burzio
[…] interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete […]
G. Leopardi, L’infinito

 

1. Nostalgia del silenzio
Immergendosi con la dovuta attenzione nella meditazione degli scritti di Romano Guardini ci si accorge agevolmente di come l’esperienza del silenzio sia una sorta di corrente carsica che, ora zampillando in superficie ora scorrendo nascostamente, nutre e rinfresca, fin dalla fonte, il suo pensiero, tanto da poter scorgere nel filosofo e teologo italo-tedesco un autentico testimone e maestro del silenzio.

C’è un libro che Romano Guardini avrebbe potuto scrivere e che invece non ha mai scritto. Questo libro è un volume sul silenzio. Tali e tanti sono i riferimenti a questa tematica sparsi in tutte le opere del grande pensatore che non è del tutto azzardato sostenere la tesi che proprio questo potrebbe rappresentare il vero libro segreto di Guardini. Del resto la sua acuta sensibilità estetica, il suo vivissimo sentimento religioso, la profondità e l’intensità del suo guardare alle cose, il rigetto per tutto ciò che è superficiale lo conducevano sempre ed inevitabilmente ad amare il silenzio.1

Ma salta subito agli occhi quanto questo amore per il silenzio risulti oggi estremamente inattuale, poiché silenzio e solitudine – non certo quelli psicologicamente aberranti, ma quelli autentici che nutrono l’anima – diventano sempre più rari e difficili. È anzi ormai un dato di fatto che la continua «irruzione del frastuono e della frenesia nel silenzio creatore»2 devasta la nostra esistenza rendendola esteriore a se stessa: «ovunque rumore, ovunque corsa affannosa. Com’è orrenda questa specie di spettro della vita!»3 Non è certo un pericolo da sottovalutare, perché con il silenzio va perduto «qualcosa di indispensabile alla vita, come l’ossigeno»4.

Di questo assordante dominio del rumore – tanto quello esteriore quanto il rumore che si insinua in ogni strato della nostra esistenza, fin nelle profondità spirituali – ciascuno è vittima e al contempo responsabile. Anche noi, infatti, «siamo diventati attivisti e ne siamo orgogliosi; in verità abbiamo disimparato a metterci in silenzio, a raccoglierci, ad aprirci, a guardare e ad assumere in noi le essenzialità». Parole, quest’ultime, che descrivono la meta di «quel compito che per noi oggi è tanto urgente quanto nessun altro, quello della contemplazione»5, della riconquista di un vero atteggiamento contemplativo per mezzo di un’ascesi del silenzio e del raccoglimento, con tutta la durezza che tale lotta comporta, al fine di «trattenere la nostra anima perché non venga trascinata, a pezzi, tra quel correre e gridare»6 in cui quotidianamente siamo immersi.

Tornando alla familiarità con il silenzio riconquisteremmo forse quel sapere profondo che affiora dal centro dell’anima e dal fondo della realtà in cui essa è inserita, perché solo il silenzio è premessa e condizione del loro rapporto. Del silenzio l’uomo ha infatti bisogno «per instaurare una relazione con ciò che vale» e mantenere in tal modo viva la propria interiorità, conservando per questo limpidezza di sguardo e libertà di giudizio sulla profondità di significato della realtà incontrata. Solo nel silenzio può allora accadere «che l’uomo arrivi all’essenziale e che, a partire da ciò, faccia la sua opera»7.

2. Silenzio e meraviglia

Riscoprendo silenzio e contemplazione saremmo nuovamente prossimi al primo atto autenticamente umano dopo la caduta di Adamo, al delicato e potentissimo balenare, pregno di mistero, della meraviglia, «esperienza che l’uomo fece agli inizi, nel suo incontro con la natura e con i processi dell’esistenza»8, e che da allora, malgrado il rumore costante, rimane «una possibilità radicale dell’uomo»9. Nella meraviglia primordiale, dinanzi allo splendore del cielo stellato, l’uomo «si apre alla silenziosa maestà sopra di lui» e «sente il brivido, che emana dalle immagini scintillanti» e silenziosamente imponenti, mentre «il suo pensiero si stacca dal quotidiano e si eleva all’eterno».

O forse passeggiando in un bosco tra gli alberi egli può percepire «intorno l’ergersi e l’inarcarsi, il silenzio e la solennità, e viene toccato da un mistero, che sembra provenire da altrove e che pure lo afferra nell’intimo», rendendo quel momento «importante per sempre»10. O ancora: «supponiamo che sia notte. Qualcuno osserva la campagna silenziosa. Sopra di lui, la volta immensa dello spazio. Da tutte le parti brillano le stelle e le costellazioni». Ma in realtà, «che cosa “vede” allora?» Nell’animo sensibile, che col suo silenzio meravigliato risponde al silenzio loquace di queste immagini luminose,

può crescere qualcosa di diverso da tutto quello che è dicibile a partire dalle cose. Qualcosa che ammutolisce colui che ne fa esperienza. Se egli ne deve parlare, allora deve cercare le parole, e questa ricerca tradisce già la particolarità del suo oggetto. Dirà: è solenne, è misterioso, è eterno, è – ed ora egli arriva al punto essenziale – sacro. Dalla grandezza, dallo scintillio luminoso e dal silenzio verrà, in modo particolarmente toccante, il “sacro”,11

aprendo la drammatica sfida sulla sua natura e identità, su cosa o su Chi “esso” sia.
Colto ad ogni modo come l’interiorità più intima dell’essere, e al contempo come la sua più assoluta trascendenza, come «quella sfera che dà testimonianza di sé attraverso tutti i dati di fatto del mondo empirico», questa realtà divina può essere vista «soltanto nel silenzio, così come, unicamente nel silenzio, l’uomo è in grado di predisporsi all’intenzione con cui la sfera religiosa si rivolge a lui»12.

3. La silenziosità dell’arte

Nonostante frastuono e distrazione siano ormai dominanti, rendendo sempre più ardua la fatica dell’ascesi, ci sono ambiti dell’esistenza in cui la contemplazione silente gioca ancora un ruolo imprescindibile resistendo alla dissipazione. Uno di essi è l’ambito dell’esperienza artistica, per quanto sia decisamente difficile penetrarvi in maniera adeguata, subendo anch’essa la costante offesa del rumore, del cattivo gusto e dei fenomeni deiettivi che vi si accompagnano.

Non dipendendo da alcuna finalità esterna, l’opera d’arte autentica è per Guardini una realtà dotata di «senso» senza tuttavia avere uno «scopo». Esiste soltanto «per essere una forma che rivela. Non “mira” a nulla, ma “significa”; non “vuole” nulla, ma “è”»13, avendo il proprio scopo in se stessa, nel puro realizzare la propria forma intima. Essa nasce dall’incontro tra l’uomo, «nato per vedere, chiamato a contemplare», e la realtà, permettendo che tale incontro sempre nuovo si esprima in colori, forme, suoni e parole. Chi è ad esempio dotato di talento pittorico, toccato dalla realtà esterna si sente sospinto a cogliere ciò che l’essenza della cosa incontrata esprime attraverso i modi esteriori del suo apparire. Guidato da una particolare ricettività, l’artista si adopera per ricreare ciò che ha visto con il materiale di cui dispone, al fine di esprimere sulla tela e con il colore «l’essenza dell’oggetto, il nocciolo di significato, quanto in esso è peculiare e valido»14, perseguendo una rivelazione dell’essenza ancora più determinata e perfetta di quanto non si dia nella cosa stessa. All’artista sono infatti «accordati occhi speciali, che vedono più dei nostri», che sanno cogliere ciò che è solitamente inaccessibile, che scrutano «più profondamente nell’essenza delle cose, nel genere e nel destino degli uomini»15.

Nondimeno, il moto rivelativo è in realtà duplice. Cogliendo l’essenza della cosa, il pittore coglie anche se stesso, vede il proprio intimo nucleo essenziale giungere ad un più alto livello di chiarezza ed espressione insieme all’essenza dell’oggetto rappresentato. Non si tratta di due realtà separate o parallele, ma del confluire delle due essenze in una unità vitale, del palesarsi di una totalità originaria, compiuta insieme nell’incontro, confermando come l’opera sia in ultima analisi «creata per essere e per rivelare»16 in senso eminentemente ontologico.
Ciò sarebbe tuttavia impossibile se nell’esperienza estetica non entrassero consapevolmente in gioco le forze vitali del silenzio e dell’interiorità. L’artista è chiamato a far silenzio per lasciar spazio al mistero dell’essere, affinché in esso la sua opera venga fecondata. Il silenzio deve diventare il suo costante stato interiore liberamente e faticosamente cercato, e finalmente raggiunto come il «fluire calmo della vita segreta»17, per il quale si rivela nell’opera la pienezza che sta al fondo di tutte le cose.

Le cose grandi avvengono nel silenzio. Non nella rumorosità e nella pomposità degli eventi esterni, ma nella chiarezza della visione interiore, nei moti sommessi della decisione, nel sacrificare e superare nascosti; quando il cuore è toccato dall’amore, la libertà dello spirito è chiamata ad agire, e il suo grembo è fecondato a generare l’opera. Le potenze delicate sono quelle propriamente forti.18

Questa silenziosa, discreta delicatezza sostiene la vita con la sua forza, radice e terreno ubertoso da cui fiorisce, come da una musica interiore, ogni autentica opera, perché «la quiete è per l’opera ciò che la terra silenziosa è per le piante: dà forza, pienezza, durata. È l’anima profonda dell’azione», che «rende ricca e fruttifera»19 ogni espressione artistica.

Che il silenzio sia l’elemento fondamentale dell’esperienza estetica riemerge anche riflettendo sulla portata gnoseologica dell’arte, conoscenza sapienziale che si esprime in modo peculiare attraverso le immagini. Dinanzi ad esse e al loro bisogno di essere penetrate si rende ancor più evidente la necessità del raccoglimento e di una postura silenziosa, poiché le immagini rifiutano la presa violenta e ciarliera dei concetti, esigendo invece di essere trattate «come esse richiedono: contemplare, percepire, vivere in esse». Se infatti «il concetto cerca, dicendo, d’esaurire il significato», l’immagine «dice, ma al tempo stesso indica in direzione dell’indicibile»20, lasciando che il silenzio emerga al cuore stesso dell’opera, che è appunto rivelatrice delle essenze proprio in quanto rivelatrice di immagini. Quest’ultime sono per Guardini realtà essenziali, che affiorano nell’opera come immagini elementari, come elementi primi del mondo immaginario.

Tali immagini sono, per esempio, la strada; il filo; sopra e sotto, il cielo e la terra; la linea orizzontale in quanto figura della regione dell’uomo intermedia fra il cielo sopra e la terra sotto; la linea verticale in quanto figura dell’esserci della persona; la sorgente come origine di tutto ciò che scorre, ecc. […] sono immagini elementari. Sulla base di esse se ne formano di più specifiche e di più complesse; forme fondamentali del mondo, della cultura, dell’esistenza […]: fontana, porta, finestra, colonna, torre.21

Nel loro senso immediato rimandano da un lato ad elementi sensibili del mondo, dall’altro sono forme che rinviano a un livello ontologico ben più profondo, spirituale. Sono configurazioni di senso molto potenti, in cui scorgiamo le «norme dell’esserci» e «i canoni del suo significato»22, che rischiarano la confusione dell’esistenza aiutandoci a trovare in essa un orientamento. E tuttavia, «le immagini non sono escogitate, ma nascono. Spuntano, si dischiudono. Danno l’impressione di possedere una specie di autonomia». Per loro tramite «pare annunciarsi e trapelare qualcosa di in sé valido», per cui «l’uomo può solo guardare, ricevere, esprimerle nel linguaggio, dar loro forma»23 oppure tragicamente rifuggirne. Il loro ambito originario è quello della visione, di cui sono le forme fondamentali e in cui esprimono la libertà metafisica dell’essere. Sono un dono, hanno il carattere della grazia, sono «punti luminosi del sacro»24, che brillano con forza sorgiva in ciò che comunemente chiamiamo ispirazione.

Per quanto le immagini mantengano sempre viva la propria capacità di appello, occorrono occhi che possano e vogliano vedere, e dunque quell’atteggiamento che «poggia sulla coscienza che il mondo e le sue forme, la vita e le sue vicende, la propria esistenza come quella degli altri non sono niente che l’uomo stesso faccia e controlli, ma “dono”», dischiudersi misterioso dell’essere, rispetto al quale la contemplazione è l’atto «dell’esser-chiamato e del dischiudersi, dell’ascolto attento e dell’immergersi»25 che si raccoglie e condensa nel silenzio. Ciò non riguarda soltanto l’artista, ma anche, e in misura non minore, il fruitore, chiamato ad entrare in prima persona nella realtà dell’opera d’arte per collocarvisi con il proprio tragitto personale. L’artista è tale perché riesce a dire ciò che gli altri in qualche misura percepiscono senza poterlo esprimere. Egli libera l’essenza e rivela le immagini fissandole in una forma che può essere vissuta anche da chi non può «produrla creativamente», ma che ora «sta aperta» per ognuno, formando «uno spazio nel quale l’uomo non creativo può entrare e divenir partecipe del mondo che vi è sorto»26.

Grazie al vivo sentire dell’artista, anche il nostro, normalmente assopito, è risvegliato, nel realizzarsi di una relazione dai molteplici legami tra la realtà che ci si fa incontro, l’artista, l’opera ch’egli produce e l’osservatore, cui è richiesta una partecipazione attiva per giungere, anche lui, ad una maggiore chiarificazione della propria essenza. Ogni vera opera d’arte è «uno spazio ben disposto e ricolmo di significati in cui si può entrare guardando, ascoltando, muovendosi», in cui «le cose e l’uomo sono aperti». Perciò «lo spettatore, entrando in questo mondo e riproducendolo in sé, può vivere anch’egli nella totalità» che l’opera ha saputo realizzare.

Non gli è chiesto tuttavia «un semplice vedere o ascoltare», bensì la capacità di respirare e muoversi nello spazio aperto dall’opera, ovvero, ancora una volta, la capacità di contemplazione. Sono in pochi a riuscirci, perché al di là di una generica e sensuale percezione del bello, o anche di una vaga conoscenza di tecniche, scuole e stili, l’autentico rapporto con l’arte «consiste nel mettersi in silenzio, raccogliersi, entrare, guardare con sensi desti e anima aperta, spiare, rivivere», ma anche accogliere e ringraziare. Allora «si dischiude il mondo dell’opera d’arte», con lo squisito dono della pace che essa può dare, mentre lo spettatore, senza clamore, ma tacito e quieto, diviene anch’egli «autentico, puro» e «colmo di significato»27.

4. La parola del poeta

Se le immagini vivono nella peculiare silenziosità dell’arte, a maggior ragione ciò vale per le parole autentiche. Infatti, «il nome è la forma parallela dell’immagine»28, ma ancor più di questa la parola vive tutta nella polarità con il silenzio. E come le immagini trovano nell’espressione plastica una peculiare capacità simbolica, così, trasposte in parole, trascendono il livello del linguaggio comune elevandosi a simboli nel dire poetico.
Troviamo un importante esempio della «polarità insita nei fenomeni vitali» nel fatto che «il suono ha bisogno del silenzio per essere giusto – proprio come il silenzio ha bisogno del suono per apparire chiaro nella sua essenza. Suono e silenzio fanno parte l’uno dell’altro; allora domina quel tutto nel quale l’uomo vive»29.

Perciò la parola si rovina se non trae la sua profondità dalla matrice originaria del silenzio, così come il silenzio diventa bieco mutismo quando perde la forza di manifestarsi in parole. Se vuol mantenersi sana, la nostra esistenza deve continuare a svolgersi fra il silenzio e la parola. Forma fondamentale della vita umana, la parola è per Guardini «un grande mistero», ma ugualmente fondamentale per la vita è la forma del silenzio, «ed è un mistero altrettanto grande». Vivono in una naturale coappartenenza, come l’inspirazione e l’espirazione, sono un fenomeno complessivo, per cui «parlare in modo significativo può soltanto colui che può anche tacere, altrimenti sono chiacchiere; tacere in modo significativo può soltanto colui che può anche parlare, altrimenti è muto. In tutti e due questi misteri vive l’uomo; la loro unità esprime la sua essenza», sicché «tutto ciò che ha di importante la vita umana si svolge fra questi due poli»30.

Il poeta è di certo colui che sa parlare in modo particolarmente significativo, la sua parola è particolarmente pregnante, capace cogliere ed esprimere l’importanza della vita. Ma per essere davvero tale, il poeta avrà dovuto imparare innanzitutto a tacere, a vivere nel silenzio, che non è un vuoto, ma pienezza di vita genuina e colma, pace e profondità della vita interiore. Senza silenzio e ascolto, tanto del poeta quanto del fruitore, la poesia perde la sua forza migliore, poiché è solo dal silenzio che si può realmente udire ciò che essa dice. La poesia è la «sede dove si condensa il mondo della lingua, in atto di conservare e di creare»31.

Come l’arte in generale, anche «la parola della poesia rende in ogni caso più intense e più chiare le cose, le esperienze. […] condensa la realtà dispersa, oscurata e smarrita, dell’esistenza in forme capaci di esprimere assai più di quanto “le cose hanno mai / pensato intimamente di essere”, come dice Rilke nella Nona Elegia»32. Ma la preziosità e il nitore di una parola capace di tanto può dipendere solo dal suo radicamento silenzioso, dal momento che «la parola è essenziale ed efficace solo quando nasce dal silenzio». Per esso sarà feconda, germogliando e portando frutti al momento giusto. «Il silenzio schiude la fonte interiore da cui sgorga la parola»33, per cui il poeta ne sarà maestro solo se prima avrà imparato la maestria del silenzio, l’ascesi che mette a tacere ogni voce che può tradire la profondità dell’esperienza di incontro in cui è convocato.

Silenzio che ascolta e silenzio che vede, per il quale nel detto del poeta parla ben più che la sua sola individualità. «Di tale di “più” si è sempre avuta cognizione», perciò la poesia ha sempre goduto di un particolare rispetto, tanto che era naturale per gli antichi scorgere nel poeta «un veggente»34. In lui, infatti, l’esperienza primordiale del sacro «assume una particolare potenza: diviene visionaria». Egli è afferrato dalla potenza significativa di ciò che vede, in un aprirsi dello spirito per il quale si scopre posto «al servizio di una chiamata»35 proveniente da «ciò che dispone l’uomo buono ad inchinarsi, come mai potrebbe fare dinanzi a qualcosa di puramente terreno.

È qualcosa di misterioso eppure di determinato, qualcosa di estraneo eppure di profondamente intimo», interno alla realtà sensibile benché venga «da tutt’altro luogo che il mondo»36. Non un fenomeno psicologico, ma «un autentico venire a datità di qualche cosa», donazione del sacro, rivelazione a cui la commossa ricettività del poeta deve rimanere fedele per annunciare ciò che ha visto, nella consapevolezza di svolgere una missione religiosa. La poesia scopre allora la sua più profonda essenza nell’essere enunciazione religiosa, le cui parole esprimono «per via indiretta, dialettica», la potenza sovramondana che traluce nel mondo. Esse permettono così un «passaggio» dall’uno all’altro livello tramite asserzioni per immagini, il cui significato è però ben più grande del loro contenuto sensibile, secondo l’«appropriata inautenticità»37 del simbolo. L’evento naturale, ormai trasfigurato, diviene uno schermo per il manifestarsi del sacro, in una «presa di coscienza silenziosa» che tuttavia «si chiarisce nell’evidenza della parola», la quale però «si riaccerta continuamente del suo senso nel silenzio interiore»38.

Ma come ogni altra parola, la poesia «è sempre in cammino verso l’altro». Chiunque ne oda la misteriosa preziosità è invitato a darle compimento «con la sua risposta»39, imparando però per prima cosa dal poeta il silenzio, al quale il suo deve far eco nell’ascolto autentico. Nella «commossa serenità» di entrambi, il silenzio permette il «manifestarsi di quell’immagine percepita dai sensi che si rivela allo sguardo interiore. Soltanto in tale manifestarsi se ne può sperimentare la potenza di significato, e solo da questa esperienza la parola trae la sua energia d’espressione»40. Anche noi quindi, posti in silenzioso ascolto del poeta, possiamo esperire come silenzio e parola assumano una valenza eminentemente religiosa, dal momento che il silenzio costituisce il presupposto di ogni esperienza religiosa, che proprio nei versi può trovare adeguata espressione.
Alla luce di questo, possiamo allora scorgere in Diotima, «realtà umana […] di rara configurazione»41 ed emblema del sacro silenzio che domina al centro dell’Iperione di Hölderlin, una figura simbolica della stessa poesia, che come lei vive di una vita attenta e raccolta. Profondamente amato da Diotima, il giovane e inquieto Iperione, che pur ricambia vivamente il suo amore, è trascinato da uno spirito di avventura smisurato e autodistruttivo, che non gli permette di vivere nel silenzio come invece Diotima, divinamente calma e dallo sguardo tranquillo, gli suggerisce. «Mentre per lui tutta l’esperienza vissuta si proietta all’esterno», vittima del rumore che vi regna, «per Diotima essa si svolge nel profondo». La sua più grande forza è «la quiete interiore che si radica nell’interiorità del cuore», nella sua «forza amorosa»42, propria di chi vive del silenzioso entusiasmo per il sacro. In lei vi è «una potenza delicata, una profondità che brucia, una serietà che ama, una capacità di dialogo con la vita e la morte attraverso i valori, e quindi un’assoluta suscettibilità di destino». Non è forse, questa, una perfetta descrizione anche della poesia? Come infatti nella poesia, anche in Diotima «diviene chiaro e presente il sacro-divino», al punto che quando Iperione è con lei «sa che “il sacro gli cammina accanto senza pretese”»43.

Ma incontriamo un altro potente simbolo della poesia anche nelle figure femminili, soavi e silenziosamente religiose, che brillano nei romanzi di Dostoevskij. Una capacità di silenzio tanto semplice quanto estremamente tenace, mai disperato dinanzi al mistero della vita, a volte doloroso e incomprensibile, che spicca nella Sònja Andrèevna de L’adolescente. Umile, dolce e remissiva, ella è allo stesso tempo ferma e realmente forte, ma ancora una volta la sua è forza vitale e perseverante perché silenziosa. Nel corso drammatico e singolare del suo destino, «la sua forza non sta nel prendere un’iniziativa, ma sta tutta nel ricevere. E questo avviene con tanta semplicità, con tale oblio di sé, con una tale profondità e intensità, che la sua figura assurge a una tacita grandezza».

Il suo è un «profondo consenso» alla vita e ai suoi eventi, dai quali non viene tuttavia dominata o disorientata, ma che vengono accettati per come sono dalla «sua limpida forza». Anche rispetto alle peggiori possibilità esistenziali, «rimane ferma in un atteggiamento di perseveranza dolente, silenziosa e sempre più intensa, possibile solo perché sente in qualche modo la presenza di Dio in ogni cosa»44. Allo stesso modo, in Delitto e castigo Sònja Semënovna si trova di fronte all’amato Raskòl’nikov un po’ come Diotima dinanzi a Iperione. Anche lei vive in un silenzioso candore infantile. La sua vita è estremamente drammatica, e tuttavia lei l’accetta senza difendersene pur non essendo una debole. Il suo è un «chiaro e potente realismo», che tuttavia si manifesta nel «paradosso di un atteggiamento inerme che in ultima analisi è un segno di forza, e proprio solo di chi si sente perfettamente sicuro nelle più profonde radici dell’essere».

Da ciò le deriva la chiarezza interiore e la genialità di un cuore chiaroveggente che legge in quello dell’amato, ma che sempre s’incarna in un silenzioso «atteggiamento di profondo rispetto per ciò che è sacro e imperscrutabile», e nella fermezza di una «fiducia che non oserebbe esprimere apertamente»45. E noi torniamo a chiederci: tra le altre cose, non troviamo forse nei silenziosi tratti di queste due splendide figure un simbolo della poesia? Come loro, anche la parola poetica attinge la propria autenticità dal silenzio, che è sempre orientamento a ciò che il dire umano non può raggiungere; parola che quando tuttavia deve esprimersi può farlo con somma purezza proprio perché radicata nel silenzio. E come Sònja, al momento opportuno, deve dire a Raskòl’nikov le poche parole che la sua tragedia ha bisogno di ascoltare, così la poesia fluisce dalla polarità tra un cuore silenziosamente colmo e la modestia di una parola zampillante e pura.

5. Il silenzio dell’Indicibile

Man mano che l’instancabile lavorio del raccoglimento porta il poeta a discendere nel proprio centro interiore, il suo silenzio soggettivo si scopre vivente soltanto nella dialogante polarità con un silenzio altro, abissale e oggettivo, che viene incontro al silenzio che il poeta ha saputo costruire, rendendosi misteriosamente udibile. È il «silenzio dell’essere […] che viene da dietro le cose: il silenzio dell’origine»46, ciò che Rilke chiama l’«aperto», e che nei versi di Quale silenzio intorno a un Dio! è per l’appunto una sfera di totale silenzio. Eppure questo silenzio «è il “luogo” in cui si palesa un essere numinoso, qualunque cosa possa essere questa entità, chiamata un “dio”, di fronte al giudizio della coscienza religiosa», per cui nel passaggio compiuto dall’enunciazione poetica «si percepisce non soltanto lo spazio del silenzio trascendente, ma, in esso, quella presenza», e la poesia termina con un verso fulmineo: «Egli è là»47.

Tuttavia, per Rilke si tratta soltanto di un essere numinoso intramondano, che invece nel sonetto The Windhover, di G.M. Hopkins, assume i tratti esplicitamente simbolici di Cristo, nel falco, che scivola silenzioso nell’aerea vastità del mattino, «delfino del regno di luce» nello splendore dell’«alba iridiata», che poi diviene d’improvviso aratro che fende la zolla; dall’altezza celeste scende nell’oscurità della terra, sprigionando «livida brace» che «si spacca e spande oro vermiglio». Nel silenzio attonito del suo cuore, che si scopre presto pienezza d’amore, il poeta fa eco alla silenziosità della scena, dando finalmente del “tu” a Colui che di quell’amore è divenuto oggetto perché prefigurato nella carnalità dei suoi simboli48.

La medesima trasfigurazione della poesia è colta da Guardini in Eduard Mörike, da canto di un silenzio soltanto «demoniaco» e di una «quiete» ultimamente «inscrutabile»49, a lode di un silenzio spirituale perché esplicitamente divino, che si rivela come forza silenziosa negli occhi del Verbo incarnato50. I medesimi tratti umani di Cristo che Dante scorge all’apice della sua esperienza visionaria, la quale resta racchiusa nel mistero dell’Indicibile, costringendo la parola del poeta a farsi pregna del più alto, possente e suggestivo silenzio, supremo tentativo e dovere di esprimere l’inesprimibile lì dove la poesia lambisce la mistica51.

«Solo nel silenzio io giungo davanti a Dio», ma in modo che dal «piano naturale» e dalla «sfera della vita psicologica» si giunge ad «un’interiorità, una profondità, che sta al di là della pura natura», esperienza dell’«uomo che si è affidato al mistero della grazia e della rigenerazione»52. Con il suo dire autentico, la poesia aiuta ad imparare il silenzio necessario a compiere questo cammino, proprio perché le parole del poeta nascono dalla radice di questo stesso silenzio. Trovata questa radice, scopriamo ancora una volta che «qui non c’è nulla di particolare da “fare”», ma «solo uno stare in ascolto quieto e sempre rinnovato». Perché «qui è il “luogo” per Dio», muovendo verso il quale giungiamo al «santo dire-Tu»53.

Elevatasi a questo vertice, la poesia, trasfigurata, può trovare un nuovo e più potente simbolo della sua natura silenziosa nella figura del profeta Elia (1Re 19, 9-13), il quale comprese che dinanzi alla realtà sublime di Dio «falliscono tutte le immagini» che l’uomo dà per scontate, perché in realtà «hanno in sé qualcosa di sovraeccitato e di chiassoso». Così Dio non andò incontro al profeta nel vento impetuoso capace di spezzare le pietre, né nel terremoto o nel fuoco ardente, ma solo nel quieto e silenzioso «mormorio di un soffio leggero». La più eloquente immagine della vita di Dio è infatti quella della «quiete infinita di un silenzio che tutto abbraccia»54, il silenzio di Colui che per l’uomo resta in sé l’Indicibile. Ma ciò che la parola umana non può dire lo dice la Parola stessa, perché la Parola si è fatta carne…

Per questo, ciò a cui la poesia non può che alludere con la potenza silenziosa dei suoi simboli, può ora divenire esperienza concretamente vivibile, alla quale Guardini non ha mai smesso di rimandare ed educare, invitando chiunque a spogliare se stesso nel silenzio, affinché, rotto il soffocante muro del frastuono, possa giungerci dal profondo la più autentica voce dell’Indicibile. Così, quando ad esempio di notte tutto tace e «ci si affida alla quiete ed al silenzio, ci si raccoglie e si presta attenzione, può allora accadere che la nostra coscienza, divenuta vigile, ci avverta: Egli è qui. Io sto davanti a Lui»55. Ma non sarebbe stato continuo insegnamento e perorazione se non fosse stata prima esperienza personale, che si fa essa stessa, in senso lato, “poetica”, così come ci attesta una luminosa pagina del diario di Guardini:

Voglio scriverlo anche se non c’è niente da scrivere. Ho acceso le candele dell’Adventkranz e mi sono seduto accanto al tavolo in sala da pranzo. Era già passata mezzanotte e mezza, ma volevo leggere ancora un po’. Così mi sono messo lì le Donauland-Märchen e ho incominciato a leggere. Poi ho percepito il silenzio, le candele ardevano e ho avvertito un senso di pace piena e tutto era, sì, era colmo. La presenza era qua in tutto. Nulla si sarebbe potuto vedere o percepire. Il basso lungo buffè e il tavolo con il vecchio tappeto e le tende alle finestre. Ma Egli [„Es“] era qua. Nulla si sarebbe potuto dire. Ma se “ciò” [das] che, inafferrabile, era in tutto, fosse apparso, tutto ne sarebbe stato colmato. Allora mi sono inginocchiato ed ho cercato di esprimere la profonda reverenza e la preghiera, senza disturbare.56

NOTE
1. S. Zucal, Romano Guardini, filosofo del silenzio, Borla, Roma 1992, p. 13.
2. R. Guardini, Lettere dal lago di Como. La tecnica e l’uomo, Morcelliana, Brescia 20225, p. 72.
3. Id., Lettere sull’autoformazione, Morcelliana, Brescia 20228, p. 136.
4. Id., Chi è un gentleman? Una lettera, in Id., Scritti sull’etica, Morcelliana, Brescia 2015, p. 305.
5. Id., Sull’essenza dell’opera d’arte, in Id., La vita come opera d’arte. Scritti di estetica (1907-1960), Morcelliana, Brescia 2021, p. 104.
6. Id., Lettere sull’autoformazione, cit., p. 143.
7. Id., L’ascesi come elemento dell’esistenza umana, in Id., Scritti sull’etica, cit.,pp. 287-288.
8. Id., Hölderlin, Morcelliana, Brescia 2014, p. 75.
9. Id., Il linguaggio religioso, in Id., Filosofia della religione. Religione e Rivelazione, Morcelliana, Brescia 2010, p. 353.
10. Id., Il Salvatore nel mito, nella rivelazione e nella politica. Una riflessione politico-teologica, in Id., Scritti politici,Morcelliana, Brescia 2005,pp. 295-296.
11. Id., Religione e Rivelazione, in Id.,Filosofia della religione,cit., pp. 151-152.
12. Id., Il linguaggio religioso, cit., pp. 349-350.
13. Id., Sull’essenza dell’opera d’arte, cit., p. 100. Circa l’estetica guardiniana ci permettiamo di rimandare a D. Burzo, Guardare alLa Totalità. Polarità e antinomia tra Romano Guardini e Pavel A. Florenskij, Mimesis, Milano 2023, pp. 315-389.
14. Id., Sull’essenza dell’opera d’arte, cit., p. 88.
15. Id., Occuparsi di arte, in Id., La vita come opera d’arte, cit., p. 25.
16. Id., Sull’essenza dell’opera d’arte, cit., p. 101.
17. Id., Volontà e verita. Esercizi Spirituali, Morcelliana, Brescia 20223, p. 32.
18. Id., Il Signore. Riflessioni sulla persona e sulla vita di Gesù Cristo, Vita e Pensiero – Morcelliana, Milano-Brescia 2005, p. 53.
19. Id., Lettere sull’autoformazione, cit., pp. 137-138.
20. Id., Conosce l’uomo solo chi ha conoscenza di Dio, in Id.,Accettare se stessi, Morcelliana, Brescia 20226, pp. 65-66.
21. Id., Rainer Maria Rilke, Morcelliana, Brescia 2020, p. 400.
22. Id., L’uomo. Fondamenti di una antropologia cristiana, Morcelliana, Brescia 2009,p. 162.
23. Id., Gli ambiti della creatività umana, in Id.,Natura, Cultura, Cristianesimo. Saggi filosofici, Morcelliana, Brescia 1983, pp. 182-183.
24. Id., La situazione dell’uomo, in Id., Natura, Cultura, Cristianesimo, cit., p. 205.
25. Id., Gli ambiti della creatività umana, cit., pp. 202 e 194.
26. Ivi, p. 186.
27. Id., Sull’essenza dell’opera d’arte, cit., pp. 103-104.
28. Id., Gli ambiti della creatività umana, cit., p. 186.
29. Id., Chi è un gentleman?, cit., p. 305. Sulla filosofia della parola in Guardini cfr. D. Burzo, Wort und Antwort, la profondità e le stratificazioni del linguaggio nella christliche Weltanschauung di Romano Guardini, in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», 1 (2024), pp. 183-202.
30. R. Guardini, Virtù. Meditazioni sulle forme della vita etica, in Id., Scritti sull’etica, cit., pp.503-504 e 505.
31. Id., Linguaggio, Poesia, Interpretazione, Morcelliana, Brescia 20242, p. 145.
32. Id., Rainer Maria Rilke, cit., p. 457.
33. Id., Il testamento di Gesù, Vita e Pensiero, Milano 19932, pp. 35 e 36.
34. Id., Linguaggio, poesia, interpretazione, cit.,pp. 157 e 156.
35. Id., Hölderlin, cit., pp. 72 e 64.
36. Id., Religione e Rivelazione, cit.,p. 152.
37. Id., Il linguaggio religioso, cit., pp. 351 e354.
38. Id., Conosce l’uomo solo chi ha conoscenza di Dio, cit., pp. 65-66.
39. Id., Linguaggio, poesia, interpretazione, cit.,pp. 153-154.
40. Id., Il linguaggio religioso, cit., p. 349.
41. Id., Hölderlin, cit., p. 491.
42. Ivi, pp. 397, 407-408.
43. Ivi, pp. 423-424.
44. Id., Figure religiose nell’opera di Dostoevskij. Studi sulla fede, in Id., Dostoevskij, Morcelliana, Brescia 2022, pp. 99 e 100.
45. Ivi, pp. 106 e 113-114.
46. Id., Rainer Maria Rilke, cit., p. 147.
47. Cfr. Id., Il linguaggio religioso, cit., pp. 365-367.
48. Cfr. Id., Linguaggio, poesia, interpretazione, cit., pp. 107-114.
49. R. Guardini, Gegenwart und Geheimnis, Werkbund, Würzburg 1957, pp. 20-21.
50. Cfr. S. Zucal, Romano Guardini, filosofo del silenzio, cit., pp. 189-190.
51. Cfr. R. Guardini, L’angelo nella Divina Commedia di Dante, in Id., Studi danteschi, Morcelliana, Brescia 2018, p. 101.
52. Id., Virtù, cit., pp. 506 e 508.
53. Id., Il bene, la coscienza e il raccoglimento, in Id., Scritti sull’etica, cit., pp. 181 e 184.
54. Id., Virtù, cit., pp. 510-511.
55. Id., Sapienza dei Salmi, Morcelliana, Brescia 1976, p. 141.
56. Id., Diario. Appunti e testi dal 1942 al 1964, Morcelliana, Brescia 1983, pp. 141-142, traduzione modificata.