Analisi di un malinteso e riflessione su un ruolo salvifico

ForlivesiCarlo Forlivesi

Che cosa può fare l’arte per la pace? In particolare, cosa può fare la musica per la pace? L’arte e la musica sono, come la pace, intimamente connesse alla natura dell’uomo ma al tempo stesso rivelano l’incapacità umana a operare per la pace. Mentre l’uomo continua a vivere un “convivialismo distorto”, abitato da dinamiche conflittuali, pur desiderando la pace, questa può essere ricevuta come dono solo dal riconoscimento dell’incapacità umana di dare la pace. La musica può sanare la natura umana, ha una funzione preventiva ed educativa e possiede inoltre, per chi crede, un’intima relazione con la vita soprannaturale. Pur avendo perso, nella concezione contemporanea, l’importanza che aveva nel passato, la musica può ancora mostrare il suo valore nell’intrinseca disposizione a stabilire legami per nuove prospettive e nuove visioni sulla realtà.
Art and music are, like peace, intimately connected to the nature of man but at the same time reveal the human inability to work to for peace. Music can heal human nature, has a preventive and educational function and also has, for those who believe, an intimate relationship with life supernatural.

Genero questo scritto su invito di Natalino Valentini, al quale mi lega un rapporto negli anni rarefatto ma duraturo, intermediato nell’immanente dall’amico Lubomir Žak e spiritualmente dalla figura di Pavel Florenskij. Nel tentativo di rispondere alla domanda “Cosa può fare l’Arte per la Pace?”, raccolgo qui alcune concise riflessioni sul ruolo che la musica in particolare ricopre in tale relazione e in che modo e misura possa influenzare i processi umani che riguardano temi come convivenza, armonia, intesa e concordia. Inizio subito con l’analisi di un doppio malinteso, il primo con un risvolto di carattere sociale, il secondo più artistico. Si parla di pace quando compaiono venti di guerra. Per ricordare un antico detto, si inizia a pensare di chiudere la stalla dopo che i buoi sono usciti. La pace non è lo strumento che evita o cessa le guerre ma anzitutto lo stato di “armonia” (termine anche musicale) che serve per prevenirle. É una disposizione d’animo a “patuire” (pax-pat) i movimenti e i termini dell’agire, proprio come nella musica le regole della composizione non limitano la creatività ma la sostengono. Come possiamo correttamente gestire il rapporto tra una melodia e un’armonia, tra le diverse voci di un coro o gli strumenti di un’orchestra, se non attraverso le regole e relative eccezioni che si sono sviluppate attorno a questa disciplina!

Preziosissima è la pace proprio come è l’arte, insite (o almeno dovrebbero) nel profondo del cuore dell’uomo e delle sue dinamiche neurali, nella sua capacità di intuizione etica e scientifica, nella sua “ragionevolezza”. Eppure l’una e l’altra si trovano nella scala dei valori reali (e non di quelli chiacchierati) in fondo alla graduatoria.

Dunque, salto direttamente a un ambito di fede a noi vicino e che immagino caro ai lettori: in una conferenza feci notare che l’espressione Salvum fac populum tuum Domine è una parte del Te Deum, una preghiera di ringraziamento eseguita durante celebrazioni di notevole importanza, mentre la maggior parte dei presenti pensava si trattasse di una parte di una “rogazione” per scampare a un pericolo. Salvum fac populum tuum Domine descrive un atteggiamento di devozione acronica, situata in una posizione non riferibile a una circostanza in un tempo definito. Ma infatti, qualcuno potrà obiettare, io non cerco salvezza ma pace. Dunque, parlando di pace, di cosa stiamo parlando? Evidentemente, non ci stiamo riferendo alla stessa cosa. Andiamo avanti, pensiamo al Dona nobis Pacem – non è una parte del Dies Irae, ovvero la pace non è un modo per scampare all’ira divina o a una qualunque furia distruttiva. Dona nobis Pacem è la chiusa dell’Agnus Dei, una invocazione questa, dei vivi, che segue a un doppio riconoscimento della miseria della natura umana (la frase “miserere Nobis” viene ripetuta subito prima per ben due volte). Come tale la pace si pone, proprio come l’arte e il pensiero, a conseguenza e premessa di un processo che tiene in conto dell’incapacità umana più che della sua bontà d’azione. Incapacità che per venire riconosciuta necessita paradossalmente un’ampiezza di pensiero: “So di non sapere” recitava Socrate (tramite Platone).

L’Agnus Dei termina proprio riconoscendo alla figura dell’agnello (e non al leone) il ruolo di datore di pace, perché l’agnello riesce a esistere pur non avendo acquisito nella sua natura inclinazione al dominio, mentre il leone nonostante la sua forza non può metaforicamente certo dispensare ciò che (più) non possiede, ovvero quella mitezza che si pone a presupposto fondante dello spirito di pace.

La richiesta di pace, il desidero di “amore” sventolato in certe marce più o meno politicamente colorate, sembra aspirare piuttosto a uno status quo per poter proseguire indisturbati tutte le dinamiche fino ad allora compiute. Tali dinamiche di “convivialismo distorto” hanno però in molte occasioni come inesorabili conseguenze proprio situazioni belligeranti o di scompiglio sistemico come attriti sociali ed ecodisastri (perché essere in guerra con il regno vegetale e animale contraddice il concetto stesso di pace, sempre che non si voglia continuare a sostenere l’antropocentrismo assoluto come inalterabile dogma dei Sapiens sapiens). E queste dinamiche i signori della guerra e della violenza le conoscono bene, spesso ancor più di chi inneggia alla pace. I signori della guerra e della violenza sono biasimati dai posteri, ma seguiti dai loro contemporanei. Viceversa i datori di pace vengono spesso derisi dai loro contemporanei e lodati dai posteri. Nelle mie conferenze di storia della musica, ricordo spesso la figura di Ludwig II von Bayern, un sovrano amante dell’arte e del progresso, personaggio eccentrico ma intelligente, fondamentalmente pacifista (per quanto possibile nel suo tempo), fatto passare per pazzo dal suo stesso entourage. Persino un personaggio di ferro come Otto von Bismark lo descrisse con parole alte: «La sua coscienza regale non era semplice vanità, il suo poliedrico sapere non era saccenteria appariscente, la sua azione politica non era follia». Ricordare invece gli artisti che hanno fatto una ingrata fine, per poi venire postumi osannati, ci porterebbe una lista esageratamente lunga; qui appena ricordo Johann Sebastian Bach, il compositore per eccellenza e, lo affermo fortemente, un demiurgo della storia moderna. Ebbene, Bach ricevette alla sua assunzione a Lipsia, il luogo ove creò molte delle più strabilianti musiche mai composte, il seguente commento: «Dal momento che non si poteva ottenere il meglio, si doveva accettare una soluzione mediocre». Agli occhi (e forse anche alle orecchie) dello scrittore, J.S. Bach era una soluzione mediocre. Sono le cose che sappiamo, che continuiamo a dirci e che purtroppo continueremo a dirci, noi e così chi dopo di noi ci seguirà. Scriveva Pavel Florenski nel 1937 dal Gulag delle Isole Solovki: «Per il proprio dono, la grandezza, bisogna pagare con il sangue».

Andando ora al secondo aspetto del malinteso, farò riferimento a qualche creazione artistica, nello specifico musicale, che a mente mi ricordi il tema della pace. Frugo nella memoria del mio “database” celebrale, almeno in quello classico, ripasso a mente svariate centinaia di opere… mi sforzo in questo esercizio, eppure nessuna di esse corrisponde a questo tema direttamente. Probabilmente bisogna sconfinare verso la metà del XX secolo per trovare composizioni che si pongono difronte alla brutalità della guerra, opere come il Quartetto per la fine del mondo di Olivier Messiaen del 1941, oppure il brevissimo oratorio Un sopravvissuto di Varsavia di Arnold Schönberg del 1947.

É anche vero che molti artisti che potrebbero aver descritto la guerra sono rimasti purtroppo vittime di essa, o comunque non deve essere facile narrare musicalmente le macerie lasciate nelle anime di chi ha sofferto episodi terribili. Semmai, risuonano nella mia mente molte opere classiche legate a vittorie militari, esaltazione di condottieri e regnanti, accenti musicali anche in opere sacre su parole tali come “Dominare” che sentiamo nel chiaro esempio offerto dal Dixit Dominus di Vivaldi (“Dominare in medio inimicorum tuorum!”), un pezzo di grande successo il quale tra salti di dominate-tonica-dominante deve sicuramente aver fatto grondare di piacere il Doge o chi per lui.

Non parlano di pace neppure gli inni nazionali moderni. Certo non ne parla la Marsigliese, tra bandiere insanguinate e bambini sgozzati, in un “umanissimo” sentimento di perpetua vendetta. Non lo fa neppure quello italiano, nel quale si canta con accorato ardore di quel “elmo di Scipio” (africano, dunque pure il razzismo si inserisce) dove “s’è cinta la testa”, non proprio una frase di chi ripudia, o dovrebbe, la guerra. Né tanto quella “Vittoria” che da un certo Iddio sarebbe stata creata “schiava di Roma”, termine lo schiavismo che nel secolo XXI non si adatta a coloro che pretendono di parlare di una nuova epoca di ospitalità e fratellanza.

A sorpresa l’haydiniano inno tedesco è stato invece un poco smussato, gioco-forza come si usa dire, sostituendo al “Deutschland über Alles” (che comunque non evocava direttamente sanguinosi scenari) un più rilassato “Einigkeit und Recht und Freiheit” (Unità e giustizia e libertà). Dunque gli inni di civilissime nazioni sembrano inviarci lo stesso messaggio: fare la guerra per ottenere la pace, ovvero solo con atteggiamenti feroci e atti di forza si può sopravvivere. Torto o ragione?

Per correttezza accademica mi riferirò anche ad altri due esempi musicali rappresentativi, uno classico e l’altro moderno: la Nona sinfonia di Beethoven e la musica della beat generation, due realtà che peraltro ritengo in qualche modo legate, come anche il grande Kubrick seppe notare. La domanda che mi sento rivolgere più spesso quando si parla di pace è: l’Inno alla Gioia di Ludwig van Beethoven, non parla di pace? No, non lo fa. Nella cantata che chiude la sinfonia non appare neppure una volta la parola pace; si parla di gioia, ebrezza e abbracci, che non sono la stessa cosa. Il clima ricorda un Oktoberfest o un Woodstock, più che una riflessione sulla pace. Non credo di dire una bestemmia affermando che Beethoven era sì un immenso compositore – lo so bene – tanto da cambiare il corso del classicismo musicale, ma non era un grande pensatore. Un’altra riflessione mi è giunta mentre notavo di recente la frase “Freude, schöner Götterfunken” ovvero l’apertura dell’inno di Friedrich Schiller utilizzato da Beethoven nella sua ultima sinfonia, scritta sul muro di una casa tedesca. Tale motto si trova a pochi metri da un paio di Stolpersteine (letteralmente, pietre d’inciampo), quei sampietrini che riportano la scritta “Qui abitava” seguita dai nomi delle persone vittime del nazismo, l’anno di nascita, la data di morte, se conosciuta, ed eventualmente data e luogo di deportazione. Sunt bona mixta malis!

Saltando ad altra epoca, l’onda sulla quale John Lennon e compagni hanno cantato e promosso il pacifismo, la nonviolenza e ogni altro smussamento degli attriti sociali, il libero amore, è stata innegabilmente potente e di risonanza globale. Con le annesse droghe ed eccentrismi, si consumava in quel milieu la mitologia incantatoria di un’esperienza di liberazione anziché l’utopia di un mondo liberato. Quella musica, anche artisticamente interessante, ha avuto un ruolo forte nel condizionamento delle masse, oso dire nella loro educazione o, meglio, infatuazione. Immancabilmente però come ogni “wave” anche questa si è infranta contro le rocce della vita reale, anche in considerazione del fatto che la beat generation fu solo in parte un movimento spontaneo. Ognuno faccia i conti come crede con l’affermazione di Lenin «Lo spontaneismo non esiste, o se esiste è organizzato».

Oggi, dopo aver assistito a marce mondiali sull’ecologia capitanate “spontaneamente” (riecco la frase di Lenin) da adolescenti che si permettono di andare negli Stati Uniti in nave per non prendere un aereo, assistiamo ad altri scenari (o copioni) prima imprevedibili con individui che si strappano le vesti pur di non eseguire musica di autori russi del passato. Un agire miope, blando e forse anche opportunista (e lo dico per inciso con la serenità di chi ha aiutato non con blablà ma nella vita e con sollecitudine studenti ucraini a proseguire i loro studi anche nella difficile presente situazione che sta vivendo quel paese). Dunque dovremmo sicuramente anche vietare le musiche di autori come Giovanni Paisiello e Domenico Cimarosa, che furono alla corte di Caterina di Russia ed ebbero un’influenza enorme sulla musica, il teatro e in generale sulla cultura e il progresso di quel paese?

Un episodio autobiografico mi ha aiutato a una riflessione: nel 2003 fu eseguita in diversi paesi europei la mia composizione “Myosotis Triptych”, una Cantata su testi tratti dal Libro dei Salmi, dal Paradiso di Dante e da una stringata quanto commovente poesia di Florenskij indirizzata al figlio Mik. Si tratta di una composizione che indaga il soggetto della pace, fil rouge tra la cruda realtà della storia e la mistica interculturale; ebbene, in diverse occasioni, in particolare in Italia, mi sentii obiettare: «Maestro, perché ha fatto una composizione sulla pace? Non è un tema corrente che tocca le persone, meglio ora parlare di acqua, di natura o di ecologia». Questa situazione si commenta da sé. Di guerre e altre belligeranze o comunque di episodi di efferata violenza per il mondo ve n’erano non poche nel 2003 (ricordiamo la guerra in Iraq, o seconda guerra del Golfo, per citarne una), ma semplicemente non ci “toccavano”. Un po’ come quando a Natale ci propinano le immagini dei bambini in Africa che soffrono freddo e fame. Ricordo che capitò anche nella mia parrocchia quando ero bambino: io pensai che il freddo in Africa ci può essere certo, ma è sindacabile il fatto che venga richiamata questa immagine mentre noi stiamo percependo uno stato invernale – dunque risulta più facile da una certa propaganda condizionarci e indurci a quel tipo di sentimento; anche sulla fame la riflessione non tarda, chiaramente coloro che sono affamati hanno necessità ben oltre le nostre feste natalizie e certo non pensano a cibarsi di panettoni. Questo anche un bambino lo capisce. Dunque siamo di fronte alla questione del relativismo della percezione, anzi ancor più al condizionamento che si riceve di un determinato problema. Ciò si applica chiaramente anche alla questione della pace o al ruolo dell’arte nelle dinamiche già menzionate.

Tento ora una sintesi che non sia partigiana. La musica ha avuto un ruolo fondamentale nella formazione della nostra cognizione del mondo, da Pitagora ad Agostino, da Abelardo a Galileo, da Nietzsche a Popper fino ad Einstein, per quanto con diversi accenti e prospettive il riconoscimento in questa direzione è univoco. Dunque un beneficio “strutturale”, che culturalmente si va spesso a unire a riflessioni spirituali e metafisiche, a indagini fenomenologiche e scientifiche. All’interno di questa cosmogonia nella quale si muove ogni nostro scibile e disputabile, questa lacrimarum valle, la musica collabora a sanare la natura: ricordiamo il mito di Orfeo, che ammansisce Cerbero, o parafrasando un inno (non nazionale ma spirituale) il suo canto piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, drizza ciò che è sviato… La musica, ci dice la grande Ildegarda di Bingen, ha un’intima relazione con la vita soprannaturale dell’anima e con la sua unione con Dio. Anche per un non credente, la musica nella sua funzione preventiva ed educativa, nella sua azione apotropaica, rigenerativa e salvifica, segna un ruolo decisivo del nostro percorso umano. Forse di per sé non ha aiutato e non aiuterà a mantenere il mondo nella pace, ma sicuramente è già positivo l’esserne consapevoli. Un antico detto buddista ci ricorda che «chi non è in pace con se stesso, sarà in guerra con il mondo intero»”.

Lungi dall’esaurire anche lontanamente la discussione, penso di aver comunque offerto alla questione un certo taglio analitico, sfrondato alcune ingenuità sull’argomento e focalizzato l’attenzione verso aspetti non sempre posti in evidenza dalla banalità dei media e del pensiero dominante. Con una chiusa forse un poco enigmatica, affermo che la musica nella concezione contemporanea generica ha perso il riconoscimento di funzione carismatica universale che le è appartenuta, dunque non è più un “valore” necessario come fu quest’arte intesa o percepita in altre epoche. Ora, uno slittamento di piano da valore a valenza (ovvero nel senso della capacità che possiede un elemento di combinarsi e formare legami) ci può aiutare a ripensare la musica, alla sua “disposizione” a trasformarsi legandosi con altri elementi anche esterni alla prospettiva antropocentrica.

Ancora un passo oltre questa soglia e poi qui mi fermo: Lubomir Žak mi raccontava di come anche Florenskij accenni alla “musica noumenale”, probabilmente uno spunto profondo per un’ulteriore riflessione che coinvolga diverse prospettive e potenzialità dell’arte nel nostro tempo e visioni del tempo seguente, tra ciò che ci sfugge e i fenomeni che questo genera, nuovamente.
«… et in terra pax hominibus bonae voluntatis».