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Confronti e approfondimenti
autore
Anna Maria Tamburini
«Si può affermare che l’uomo è pervenuto alla chiara coscienza del peccato come offesa di Dio solo nel giudaismo e nel cristianesimo, alla luce della rivelazione. Perdere il senso del peccato equivale a smarrire il senso religioso e cristiano della vita»1.
Così scriveva padre Venanzio, al secolo Agostino Reali (Montetiffi, Sogliano al Rubicone 1931- Bologna 1994), in un articolo per «Messaggero Cappuccino», la rivista dei Frati Minori Cappuccini bolognesi-romagnoli cui egli apparteneva.
Sacerdote, biblista e teologo, Reali era al contempo poeta e artista, non per diletto, se pure all’arte ed alla poesia poteva dedicare verosimilmente solo le ore notturne. Ricoprì, infatti, numerosi incarichi all’interno dell’Ordine, anche contemporaneamente, sino alla responsabilità di Ministro Provinciale, cui tentò sottrarsi, dapprima, ma che non poté poi rifiutare ed anzi che esercitò con doppio mandato, poiché allo scadere del primo triennio venne subito rieletto (1981-1987).« Perdono » è un dono moltiplicato, dal momento che nella remissione della colpa è condonato anche il castigo che ne consegue. E tutti presto o tardi, consapevolmente o meno, ci si trova nella condizione d’essere responsabili di qualche offesa, o, viceversa, di dovere condonare un torto subìto per ripristinare una relazione armonica.

Ma per chiedere perdono occorre umiltà, mentre, d’altra parte, anche perdonare ha un certo costo, richiede in vero una certa dose di abnegazione. Non è semplice, umanamente, perdonare. Ma senza riconciliazione difficilmente può ristabilirsi la pace. Per sovrammercato ne consegue la gioia: perdonare ed essere perdonati porta a gustare un senso di benefica leggerezza, come sentirsi liberati da una ruggine, o incrostazione.

La presenza del male nella storia, nella spirale di torti e violenze che solo il perdono può spezzare, manifesta la sua massima virulenza proprio nelle guerre. E se, da una parte, nel nostro tempo sembra decaduta la consapevolezza del peccato – il senso del peccato pare un arcaismo legato a una religiosità superata…–, d’altra parte, il perdono urge come estrema necessità nelle tragedie che sempre più da vicino ci investono. E tuttavia proprio la coscienza della realtà del peccato spiega con chiarezza il senso di quella “disarmonia” che ogni torto innesca con tutto il gravame delle sue ricadute…, comprese quelle non sempre immediatamente visibili, poiché ogni azione suscita una reazione e in crescendo…
Secondo la Bibbia il peccato (“hattah”, in greco “amartía”) è « il tentativo frustrato di colpire il bersaglio, cioè di sbagliare il tiro, non fare centro, mancare alla mèta ».
Del peccato – scrive ancora padre Venanzio:

«la Bibbia ha un’idea profondamente religiosa – non solo psicologica, morale e sociale – in quanto lo rapporta costantemente a Dio e alla storia della salvezza. La redenzione è intimamente correlata alla realtà del peccato. Il peccato è una caduta, una malattia, un debito, una colpa, una schiavitù, un’offesa; la redenzione è una risalita, una medicina, un condono, un’espiazione, un affrancamento, una soddisfazione ».2

Una rappresentazione visiva paradigmaticamente emblematica di questa opposizione verticale di caduta/risalita, ovvero peccato/redenzione o perdono, si dispiega efficacemente nei cicli pittorici di Via Crucis, che Reali compose in tempi diversi in forme e impostazioni iconografiche varie e diverse: la Via Crucis policroma realizzata ad uso catechistico negli anni in cui risiedette a Roma (1957-1962) – studente di Teologia presso l’Università Gregoriana e di Scienze bibliche al Pontificio Istituto Biblico – nella stazione VI, dove si raffigura l’incontro di Gesù con la Veronica protesa nell’atto di asciugargli il volto grondante sangue, dispone ai piedi del Redentore una figura femminile velata, la Madre associata alla Passione del Figlio nell’atto di chinarsi in soccorso di una figura umana rannicchiata a terra, esangue e nuda: Adamo, e con lui l’intera umanità decaduta.

Via Crucis
A.V. Reali, s.d., Staz VI Via Crucis policroma, tempera su carta, cm. 32,2×23,8, Convento Frati Minori Cappuccini Cesena

Mentre nella stazione IX3, dove Gesù cade per la terza volta sotto il peso della croce, quella figura umana nuda prende a rialzarsi con lo sguardo proteso ad un sole ardente da cui scende un rivolo di sangue: con la passione di Cristo inizia la risalita.

Via Crucis
A.V. Reali, s.d., Staz IX Via Crucis policroma, tempera su carta, cm. 32,2×23,8, Convento Frati Minori Cappuccini Cesena

Così, nella Via Crucis bicroma realizzata negli anni Ottanta: meno figurativa della precedente, questa, ma potentemente espressiva, narra la passione e morte solo attraverso l’espressione dei volti e nella stazione IX4 è fatto salvo il medesimo schema: Cristo riverso a terra sotto la pesante croce abbraccia un uomo che solleva il volto su di Lui.

Via Crucis bicroma
A.V. Reali, s.d., staz. IX, Via Crucis bicroma, tecnica mista: china nera, grafite nera, acquerello, cm. 64 x 48, Convento Frati Minori Cappuccini Cesena

La luce della Risurrezione scopre palesemente tutto e tutti i peccati, ma il Crocifisso Risorto redime l’uomo nella sua misericordia, che largamente perdona.
«Credo il perdono dei peccati», confessa Reali, intitolando così una delle prime poesie di Vetrate d’alabastro, raccolta uscita presso Forum/Quinta Generazione nel 1987 col sottotitolo, indicato tra parentesi, (Confessioni e preghiere), che, in forma criptata, ha in vero un impianto liturgico. Tra le immagini poste a corredo dell’edizione originaria figuravano del resto proprio alcune stazioni di quest’ultima Via Crucis.

CREDO IL PERDONO DEI PECCATI

Innocente l’erba
e i passeri sugli alberi,
ma noi, anima,
tu ed io perduti
in una caccia inane,
il padrone e il cane.
Abbiamo visto i bimbi
scalzi dei torrenti,
udito musica di profili,
liuti folli innamorati.
Era fra noi l’eterno
stupito di sé in noi.
Se vogliamo tornare innocenti
anche noi, anima mia,
è necessario credere
il perdono dei peccati.5

C’è bisogno di recuperare il candore dell’infanzia per ritrovare quella bellezza e quella musica («Abbiamo visto i bimbi / scalzi dei torrenti, /udito musica di profili, /liuti folli innamorati») di cui più nostalgicamente si conserva il ricordo nei momenti di smarrimento («noi, anima, / tu ed io perduti /in una caccia inane»). Si avverte sin dai primi versi, infatti, il bisogno dell’innocenza originaria, di quando «era fra noi l’eterno» compiaciuto di riconoscere la propria immagine in noi. Parla con se stesso il poeta, al confronto fra l’io e l’anima – il tu è rivolto all’anima –. Ma parla al tempo stesso a noi lettori. Non è casuale l’insistenza sul pronome di prima persona plurale nell’anelito a ristabilire la pace di relazioni armoniche con se stessi, con la natura, con i fratelli, col Padre. Il perdono dei peccati restituisce l’innocenza dell’erba, dei passeri…, l’innocenza dei santi, i quali vivono in amorosa amicizia anche con le fiere. «Se vogliamo tornare innocenti /anche noi, anima mia, /è necessario credere /il perdono dei peccati». Così l’explicit della poesia richiama l’incipit, chiudendo come ad anello il testo sul candore della vita redenta.

In una pagina omiletica per la rivista «Settimana» padre Venanzio annodava citazioni vetero e neotestamentarie:

«Gesú, il figlio dell’uomo (Dn 7), costituito mediante la risurrezione Figlio di Dio con potenza ( Rm1,3), si definisce il Primo e l’Ultimo: il Vivente. «Io ero morto, ora vivo per sempre. Ho potere sulla morte e sul regno dei morti». La storia del mondo sarebbe un libro indecifrabile senza il Cristo. Egli è “la chiave di Davide” (Ap 3,7) che solo apre e chiude, che solo può rompere i sigilli e leggere il volume del tempo (Ap 5,1-5)».6

E ancora, commentando la pagina del Vangelo della stessa Domenica:

«La sera stessa del primo giorno dopo il sabato Gesù appare ai suoi discepoli, li saluta con l’augurio della pace e mostra loro le sue piaghe per togliere ogni dubbio circa la propria identità di crocifisso-risorto. Poi, alitando sugli apostoli, gesto simbolico del dono dello Spirito, conferisce loro la stessa missione che aveva ricevuto dal Padre, cioè la potestà di rimettere o perdonare i peccati.
Così il sacramento del perdono ci è stato donato nel giorno più importante della storia del mondo e nel segno della pace messianica non più attesa, ma realizzata e presente (vv. 19-23)».7

Il perdono è una grazia che oltrepassa smisuratamente la giustizia umana. E veramente senza Gesù sarebbe indecifrabile la storia del mondo; Egli “la chiave di Davide”: attraverso l’evento storico di Passione Morte Risurrezione il Custode d’Israele ristabilisce l’alleanza con il suo popolo ed è donata a ogni uomo la grazia del perdono.
intorno alle parole chiave che si rincorrono – peccato, perdono, innocenza – spicca tra le poesie di Reali una richiesta di perdono del celebrante, formulata in prima persona in un’inedita versione del Confiteor che testimonia come una sorta di agnizione.

CONFITEOR

Stamattina, salendo l’altare,
la Tua ira mi tuonava dentro:
ero foglia smarrita, fiutata
da sottili rimorsi; ma appena
fermai i piedi sulla predella
mi riprese a cantare il sangue
alla vista di un grumo di viole.
La loro fragranza, che si dona
senza voce per la fredda navata,
mi persuase all’offerta
del mio trepido nulla
al Tuo perdono.8

Al timore dell’ira divina, suscitato dalla voce della coscienza, la fragranza dell’umile fiore nel tramortire sull’altare, insieme alla bellezza che gratifica l’olfatto, porta il conforto di una persuasione: il senso dell’offerta, che corrisponde in realtà al significato della celebrazione eucaristica. La splendida metafora del sangue raggrumato (un grumo di viole) conferisce spessore umano al delicato dono, mentre la creatura/fiore predica in realtà proprio il senso e il significato del memoriale che il sacerdote si accinge a celebrare. La poesia trasforma così in preghiera la narrazione di un’esperienza sensoriale rivelativa, capace di indurre al dialogo con quel Tu pronto a offrire il perdono, in attesa anzi di poterlo fare. Salendo l’altare, il sacerdote invoca una presenza viva che solo attende di perdonare; l’invocazione è il suo gesto di corrispondenza nell’offerta della propria nullità. E il Perdono muta l’inquietudine del rimorso in una vibrazione, in un palpito quel nulla.

Ma per la gioia che scaturisce dal perdono padre Venanzio porta, ancora in poesia, il caso di Maria di Magdala, dalla quale il Redentore aveva scacciato sette demòni: «diroccata dal peccato» e «creatura/ tremante nel suo nulla», con la Maddalena del perdono si respira la gioia nella luce del volto: «Dilagò il perdono / e la fronte redenta / brillò nel sole recente». Nel diluvio di luce si comunica così anche la speranza. Non importa che le stelle siano ancora infinitamente lontane, la felicità è stata pregustata dalla Sua presenza, e da Lui promessa per l’eternità.

MARIA DI MAGDALA

Diroccata dal peccato
sei franata all’eterno.
Guardami, dicesti:
vidi una creatura
tremante nel suo nulla.
Dilagò il perdono
e la fronte redenta
brillò nel sole recente.
Era venuto il Signore
e piú non t’importava
che fossero le stelle
tanto lontane.9

Nella storia umana, sia intesa individualmente, che a riguardo dell’intera famiglia umana nel corso dei secoli, dei millenni… l’esperienza del peccato è fatta di corsi e ricorsi ed in tal senso la Parabola del Figliol prodigo rappresenta paradigmaticamente il rapporto tra l’eterna vicenda della miseria dell’uomo e l’eterna sconfinata misericordia del Padre, in attesa solo di perdonare. Del resto Dio è addolorato più dell’uomo per le sue cadute, come si raffigura in un altro quadro, del ciclo pittorico di Creazione (coevo alla Via Crucis policroma degli anni romani): Creazione 22 mostra la coppia dei progenitori, scopertisi nudi, già rivestiti dalla misericordia del Creatore il quale, visibilmente addolorato, non abbandona il suo pietoso sguardo su di loro.

AV
A.V. Reali, Creazione 22: s.d., tecnica mista su cartoncino, cm. 435 x 52,5, Convento Frati Minori Cappuccini Cesena

Sempre più si preferisce, infatti, giustamente, per questa parabola, la definizione di parabola del padre misericordioso. Ma siamo nel paradigma di una grandiosa straordinaria asimmetria.

UN PADRE AVEVA DUE FIGLI

Un sole di corsia silenzioso
entra nella stanza e sembra
volermi tenere compagnia;
un ragno vorticoso nell’angolo
illude la speranza furtiva
e non ritorna il tempo.
Sul capo ho cenere: soltanto
gli stalloni viola dei monti
han potere di conquidermi ancora.
Vedo le formiche della gente
inerpicarsi ai paesi
ove la carne patisce la tua assenza
dannata com’è all’amore
che stordisce pensando il ritorno.
Sotto un cielo chinese
tessono le ore il tempo
mentre racconti alle nubi:
“un padre aveva due figli…”.10

Con questi versi nati nella ricorrenza di un Mercoledì delle Ceneri padre Venanzio ci fotografa dapprima il contesto di vita ordinaria nel quale si trova a vivere: cappellano presso l’Ospedale Bellaria di Bologna. Dalle alte finestre delle stanze dove si reca a visitare i degenti egli osserva come lunghe file di formiche – e l’eco montaliana esalta la condizione esistenziale – la processione della gente che scende e sale «ai paesi / ove la carne patisce la tua assenza / dannata com’è all’amore /che stordisce pensando il ritorno». La nostra carne, che non sa amare, che tradisce l’unico comandamento riassuntivo di tutti gli altri, intensamente avverte il desiderio della Sua presenza, e intensamente medita il ritorno.
Il topos del ritorno è fondamentale nell’opera di Reali. Nella poesia l’inizio della parabola funge da explicit, da cui è tratto anche il titolo, Un padre aveva due figli…, poiché ogni giorno sotto nubi color dell’inchiostro (Sotto un cielo chinese) si ripete la medesima vicenda, di un figlio che parte e un padre che attende.

«Un giorno il piú giovane disse al padre: “Dammi la parte che mi spetta”. Poi se ne andò in un paese lontano, sperperando le sue sostanze… Sembra l’inizio di un racconto fiabesco, invece è la cronaca di tante famiglie d’oggi. Il seguito della parabola dimostra che l’amore e la bontà non perdono mai, anche se debbono registrare momentanee sconfitte e apparenti insuccessi. È chiaro che l’insegnamento della Bibbia, emergendo quasi sempre dalla storia, ha prevalentemente un carattere simbolico e frammentario; per questo anche le scarne linee di pedagogia presenti nel testo sacro non possono che offrire alcuni spunti sicuri per un discorso più organico e dettagliato.
Quanto è stato detto in questi brevi appunti si basa sull’analogia che la Scrittura coglie tra il comportamento di un padre e di una madre verso i loro figli e quello di Dio Padre verso le sue creature. Analogia stupenda e inesauribile, come la realtà di Dio stesso “dal quale trae origine ogni paternità nei cieli e sulla terra” (Ef 3,15) ».11

Così commenta padre Venanzio l’inesauribile, stupenda analogia della parabola, dove il ritorno è necessitato, agognato e preparato: «Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te». Nella confessione della colpa, l’invocazione del perdono.
Una personale invocazione di perdono sulla via del ritorno:

VENGO A TE CRISTO MIO

Vengo a te, Cristo mio,
schernito dalla notte dei gufi
e dal mio silenzio.
Hai le palpebre grevi
e trattieni la lacrima fra le ciglia,
Cristo mio di terracotta
nella lunetta turchina.
Sento l’inane vacuità
delle mie parole:
sono qui davanti a te,
diaframma a me stesso.
Prendimi quel che sono,
salvami nel tuo perdono.12

I gufi sono uccelli notturni; il loro lugubre canto si teme, si dice porti sfortuna. L’inedita analogia sembra dunque una realistica rappresentazione della tenebra che avvolge l’uomo nella lontananza, e di più nell’irrisione della fede nella redenzione – «schernito dalla notte dei gufi» –. Anche l’assenza della preghiera offende quel Cristo che solo può riscattare la nullità umana, e salvare, il quale – schernito dal nostro silenzio – trattiene lacrime fra le ciglia ed è un volto familiare: è il mio, dice il poeta, pensando all’Ecce Homo della lunetta posta sul portale dell’antica abbazia di Montetiffi, dove egli è stato battezzato e che rappresenta un po’ la sua prima immagine di Chiesa.

SE NON RITORNI CON NOI

Da questo clivo col pinastro
di sprazzi d’ali vivo
odo un rovello di ruspe
e smemorare il ricordo su volti
che mi videro brano di luce.
Se non torni con noi
la terra si oscura,
e mirare il verde degli ulivi
è tristezza se non torni
sul giumento a recar pace
alle case alle contrade.
Derelitte le vigne,
muti i lucernari,
il cervello un cerchio folle
intorno al mozzo delle ruote
e gli occhi delle case
turchine ocra garanza
occhi di ragazzine
colmi di nostalgie.
Poi l’angelo ribelle
si desta e mi trafuga
l’anima verso il nulla.
Se tu fra i muricciuoli
non ritorni con noi
berremo la morte
che dorme ai davanzali.13

Sono stati scritti intorno a una Domenica delle Palme questi versi nostalgici di una pace di cui si è fatta esperienza, ma che ora è disturbata dall’angelo ribelle? Persino la vista degli ulivi non riesce a comunicare pace se il Signore Gesù non torna, sul puledro, incontro alla gente, nelle case, per le strade. E un po’ tutta l’opera poetica di Reali, già dai titoli, manifesta questa attesa di riconciliazione. Il disegno – incompiuto – di opera omnia della sua poesia, ampiamente articolato in capitoli e sottocapitoli, che avrebbe dovuto intitolarsi Parabole del mio tempo, prende avvio non a caso dalla “Partenza del figlio minore”. E il canale di comunicazione per la ripresa del dialogo è la preghiera, che può essere anche supplica affinché si possa pregare: una preghiera perché la preghiera si ristabilisca, o non venga meno.

FAMMI PARLARE A TE

Ti cerco, mia luce,
non voglio appartenere alla notte.
Mi vien dietro la morte
quando tu sei via
e nel silenzio l’anima
si tende all’ascolto
come sposa sola.
Non siano le tue labbra mute,
tu che desti una voce a ogni cosa;
dischiudimi la mente alla preghiera,
allungami il cavo della speranza,
tu che pendesti alla croce per me.
Volgendomi alla mia traccia
tremo come locusta
in un esausto sole di stagnola.
Oltre la soglia amata
la luce delle colline
la rugiada dei plenilunî
i miei occhi ti aspettano,
non paghi di simboli,
sul diaframma del mondo.14

L’incanto della creazione nelle sue creature rappresenta come per simboli, secondo il poeta, la magnificenza del Creatore. La molteplicità delle forme, il mondo in generale…tuttavia è come un diaframma tra l’uomo e Dio. Lontano dalla relazione col Padre, l’uomo solo può anche adoperarsi per un qualche bene, ma molto presto nella lontananza finisce per smarrirsi sino a perdersi. Cos’è la guerra in ultimo se non l’esito di tale lontananza sino all’esplosione dell’odio in tale perdita? Tra le poesie che rievocano l’esperienza della guerra, patita dall’autore negli anni dell’adolescenza, la raccolta Fantasmi di un reduce passa in rassegna una casistica di episodi alcuni dei quali tratti dal vissuto personale, numerosi altri dalla letteratura di guerra15.
Un ricordo forse personale, che non si discosta per nulla purtroppo dalle immagini delle cronache di questi ultimi anni:

FRA LE MACERIE UN BAMBINO

Un caldo respiro invadeva
l’aria presaga di lutti
quando scorpene di acciaio
effusero essenza di nequizia
sul granaio della città.
Fra rantoli e rimbombi
trapanò un rugghio ossidrico
scrigni e coscienze.
Nella resa inopinata dei conti
nell’assedio improvviso del nulla
rispuntarono le estreme
ragioni della nostra vicenda.
Fra le macerie un bambino
ignaro ancora del piangere
vidi col ventricino scoperto.
Le madri impossibili si torsero
in selvaggi atti d’amore.
Tuttavia la scheggia di fuoco
che ha squarciato alcove
e crivellato cranî
non ha rotto i ceppi agli schiavi.
Il male trama ancora la terra,
i figli espiano i falli dei padri
e le donne sugli usci impallidiscono
rompendosi il muro del suono.
Perciò calando la sera
l’ “ecce homo” della lunetta
si dispone paziente
al dileggio dei beffardi.
Perciò vorrei che scendesse
su questi muri insanguinati
su questi cieli sibillini
una notte senza fine.16

Senza commentare questo testo densissimo di riferimenti personali, sia del vissuto, che delle cifre della propria poesia, (riferimenti che meriterebbero altri più articolati affondi), l’attualità dei versi ci comunica uno sgomento che pare senza spiragli e che è forse unico nella poesia di Reali, il quale persino nelle pagine più drammatiche della storia lascia intravedere la possibilità di una qualche via d’uscita, o di redenzione, come nei versi conclusivi di un altro componimento appartenente alla medesima raccolta:« Superstite alla nostra follia / sarà un bimbo fra le macerie / e un coro di donne nere / che cercano un filo d’erba »17.
Il male non ha l’ultima parola, la morte è stata vinta. E l’abbraccio della Misericordia ha una mano paterna e l’altra materna, come visivamente ha rappresentato Rembrandt nel celebre dipinto del ritorno del figliol prodigo.
Sull’albero della vita, la Croce, il Figlio divino, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, ci ha affidato la sua Santissima Madre. In Maria, «piena di grazia», tutta santa e modello dell’umanità redenta, è l’ancora sicura nel mare delle nostre tormentate esistenze:

FIORE DELLA POESIA

L’universo è il tuo stelo,
fiore della poesia,
profumo del creato, Maria.
Quando tremano le stelle
e la fiumana di torce
arde ai tuoi piedi,
tu plachi il vento dell’ira
e ravvivi nei cuori,
che disperavano di Dio,
la fiamma dell’amore.
L’umile tua purezza
ti rese madre di tutti
e volgesti ogni lacrima
in nostalgia di bene.
Il mare cattivo a un tuo cenno
si calma, dà giù il vento
e salvi dalla rapida del tempo
la marea delle generazioni.18

M
Madonna col Bambino_ M 6 Fronte 19,3×30,4

NOTE

1. A.V. Reali, Per la Bibbia, che cosa è il peccato?, in Il pane del silenzio. Articoli dal 1975 al 1993, a cura di G. De Carlo, D. Dozzi, Book Editore, Castel Maggiore-Bologna 25 marzo 2004, 47.
2. Ibid..
3. Via Crucis. “Breccia nel mistero“, a cura di A.M. Tamburini, fr P. Rivi, Il Vicolo divisione libri, Cesena 31 maggio 2018, 29.
4. Ibid., 52.
5. A.V. Reali, Vetrate d’alabastro (confessioni e preghiere), Forum/Quinta Generazione, Forlì 1987; ID, Primaneve. Le tre raccolte edite (1986, 1987, 1988), Book Editore, Castel Maggiore-Bologna 2002, 2019², 54.
6. Il giorno del Signore. Seconda Domenica di Pasqua C (10 aprile 1983) in Settimana, (13/27 marzo 1983); A.V. Reali, Il pane del silenzio, cit., 191.
7. Ibid..
8. A.V. Reali, Nóstoi. Le poesie ritrovate, a cura di fr. F. Gianessi e A.M. Tamburini, prefazione di A.M. Tamburini, Postfazione di P. Valesio.
9. Ivi, p. 55. Questo componimento (della pubblicazione delle poesie ritrovate) appartiene alla serie delle Eccedenti Bozzetti per Creature.
10. A.V. Reali, Vetrate d’alabastro; ID, Primaneve, cit., 65.
11. ID, «Messaggero Cappuccino», 1981, 172-173. ID, Il pane del silenzio, cit., 87.
12. ID, Vetrate d’alabastro; ID, Primaneve, cit., 101.
13. ID, Vetrate d’alabastro, 88.
14. ID, Vetrate d’alabastro, 89.
15. A.M. Tamburini, Senso tragico nella poesia di guerra di Agostino Venanzio Reali, in «Campi immaginabili» (30/31) 2004, Rubbettino, 249-268.
16. A.V. Reali, Fantasmi di un reduce, in ID, Nóstoi. Il sentiero dei ritorni, (poesia) a cura di D. Dozzi – F. Gianessi, (introduzione di Ezio Raimondi e Alberto Bertoni, testimonianza di Marcello Camilucci), Book Editore, Castel Maggiore (BO) 1995, 2008², 2019³, 134.
17. in Il fiume dei mostri, ivi,114.
18. A.V. Reali, Vetrate d’alabastro, ID, Primaneve, cit., 102.