Peregrinatio est tacere (“Il pellegrinaggio consiste nel tacere”). I Padri del deserto riferivano al silenzio la nostra vita di pellegrini. Tra tutti gli aspetti di cui poter parlare alle soglie dell’anno giubilare della Speranza potrebbe sembrare strana questa sottolineatura. E, invece, è quanto mai necessaria. Sotto gli occhi di tutti è la realtà del rumore e della chiacchiera in cui siamo immersi. La civiltà del virtuale e della tecnocrazia è ormai definita come “la civiltà del rumore”. Passando per le nostre affollate città, soprattutto in questo tempo natalizio, ormai anticipato a dismisura, si avverte un eccesso di suoni in disarmonia, ripetuti con insistenza ed ossessione, che colpiscono l’orecchio ed il sistema nervoso e, come conseguenza, danneggiano lo stesso equilibrio psichico.
Inoltre, questo stile di vita è venuto, anche, a rompere i ritmi biologici umani più profondi. Lo stress da suoni e parole urlate ormai ha raggiunto un limite insormontabile. Ce ne accorgiamo in tutte le forme di comunicazione, da quella televisiva a quella pastorale: abbiamo quasi paura del silenzio. Tutto deve essere riempito di sottofondi opportuni ed inopportuni, senza tempi di distensione e di pausa.
Il silenzio è, infatti, un tempo disarmante, un tempo che ci riconduce alla nostra nudità esistenziale, alla nostra condizione di uomini e donne in cammino. Il frastuono ci illude della eternità del nostro presente, il silenzio ci riconduce sui sentieri dell’essere.
Una persona che parla troppo (parlo per esperienza personale) rischia di restare intrappolata nei suoi discorsi, come schiacciata dal peso del momento, in una sorta di presunta sazietà affabulatoria. In fondo è sempre la logica narcisistica di chi si crede di dare ragione sulla base solo delle sue argomentazioni, del suo modo di vedere le cose, della sua visione del mondo.
Il silenzio, invece, è la condizione di possibilità per ascoltare l’altro, quindi, di riconoscimento della propria povertà e di volontà di viverla in uno stato esodale, aperto all’incontro con il tu, anche quello con la “T “ maiuscola.
Ecco perché la preghiera stessa, prima che invocazione o lode, è silenzio. Tibi silentium laus! Una variante latina del versetto 2a del Salmo 65 (“A te si deve lode, o Dio, in Sion”) tradurrebbe il termine ebraico dumià, non in quanto semplice mancanza di rumore, ma silenzio interiore, forma attiva di silenzio.
Non a caso l’esperienza di Dio nel caso del profeta Elia, stanco ed amareggiato, pellegrino sull’Oreb, avviene attraverso il silenzio (1Re 19,12). Il suo vagare per sfuggire alla malvagità del re e della moglie, la sua stanchezza esistenziale trova senso nell’immersione in Dio come mistero di silenzio.
Il pellegrinaggio da fare per i credenti e non credenti in questo anno giubilare è verso il mistero di noi stessi e di Dio, che si può compiere solo se riscopriamo le dimensioni della interiorità, del raccoglimento, della essenzialità senza le quali non vi è nessuna autentica possibilità di rinnovamento né personale, né comunitario. La funzione purificatrice del silenzio ci apre gli orizzonti della vicinanza agli altri, ci dischiude le possibilità di una autentica rinascita come singoli e come comunità, umana e cristiana.
Così la mistica delle periferie Madeleine Delbrel, una delle voci più significativa della spiritualità del quotidiano così necessaria nel nostro mondo complesso e contraddittorio, in Noi delle strade scrive:
D’altra parte che cos’è il Natale se non mistero di silenzio, la Parola che si fa silenzio, si fa carne nel seno di Maria nel cuore della storia del mondo?