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Confronti e approfondimenti
autore
Johnny Farabegoli

La chiesa dives in misericordia nel quartiere periferico romano di tor tre teste 1996 – 2003: cronaca e storia di un edificio di culto giubilare

1. Premessa

In questo numero della Rivista Arti&Teologie, dedicato al perdono e la misericordia, in un orizzonte giubilare (dato l’anno in corso), viene qui offerta una breve riflessione che interessa l’ambito dell’architettura sacra e che si inserisce, contestualmente, nella tematica di questo numero. Si tratta della chiesa Dives in Misericordia dell’architetto Richard Meier a Tor Tre Teste a Roma, completata nel 2003, qualche anno dopo l’anno giubilare indetto da San Giovanni Paolo II nel 2000, ma che proprio per quell’anno era stata pensata la sua inaugurazione. Per condurre una riflessione su questo luogo di culto, è necessario però partire dagli antefatti che ne hanno determinato l’ideazione e la realizzazione.

2. Vicenda concorsuale-progettuale: gli antefatti

Nell’ambito dell’iniziativa strategica denominata 50 chiese per Roma 2000, promossa nei primi anni Novanta dal Vicariato di Roma, volta a dotare di centri parrocchiali le periferie della capitale che ne erano carenti, nel 1993 veniva bandito, sempre da parte del Vicariato di Roma, un concorso europeo di idee, a partecipazione aperta, per la progettazione di due nuove chiese: una sull’area di Dragoncello (zona Acilia Nord), nella periferia ovest di Roma, l’altra sull’area di Tor Tre Teste, nella periferie est della città. I progetti pervenuti furono oltre cinquecento (534 per l’esattezza1) ma, come ricordava l’architetto Francesco Garofalo sulle pagine della rivista «Casabella»2 – numero dedicato ad un’ampia riflessione storico-critica sull’architettura sacra -, il risultato si dimostrò particolarmente deludente. Nonostante la molteplicità delle proposte progettuali pervenute, solo per l’aerea di Dragoncello si ebbe un esito positivo, con l’assegnazione del primo premio all’architetto milanese Bruno Bozzini e la successiva realizzazione della chiesa dedicata ai Santi Cirillo e Metodio con il relativo centro parrocchiale (realizzati tra il 1996 e il 19973). Relativamente all’area di Tor Tre Teste, fu assegnato invece solo un terzo premio all’architetto romano Stefano Cordeschi, poiché nessuno dei partecipanti, a giudizio unanime della giuria presieduta da mons. Giancarlo Santi, aveva presentato soluzioni soddisfacenti4.

Nel 1996, sempre il Vicariato di Roma, proprio in vista del Giubileo del 2000 e lasciandosi alle spalle l’esito infruttuoso del precedente concorso sull’area di Tor Tre Teste, bandiva nuovamente un concorso internazionale, questa volta ad inviti specifici, chiamando a partecipare alcuni degli architetti, all’epoca, tra i più affermati (e tutti di “poetiche” diverse), quali: Tadao Ando e Associati, Osaka; Santiago Calatrava, Zurigo; Günther Benisch & Partners, Stoccarda; Peter Eisenman Architects, New York; Frank O. & Associates, Santa Monica; Richard Meier & Partners, New York (quest’ultimo risultato vincitore). Questa volta la qualità delle proposte progettuali pervenute sembrò ottemperare l’importanza dell’operazione messa in atto, tanto che Bruno Zevi, che non aveva potuto prendere parte ai lavori della commissione giudicatrice per motivi di salute, in occasione della cerimonia di conferimento del premio all’architetto vincitore, Richard Meier, aveva dichiarato, molto ottimisticamente, che «era iniziata una nuova era dell’architettura cristiana»5.

D’altronde, non va dimenticato che proprio in questi anni la CEI sta promuovendo una rinnovata attenzione all’architettura sacra, non solo attraverso un’ampia attività concorsuale, ma anche con due Note pastorali di particolare importanza: quella su La progettazione di nuove chiese (1993), proprio in concomitanza con l’iniziativa 50 chiese per Roma 2000, e quella su L’adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica (1996).

Ritornando agli esiti del bando internazionale ad inviti, la chiesa dell’anno 2000 a Tor Tre Teste, dopo la posa della prima pietra, il primo marzo 1998, veniva inaugurata solo nel 2023, il 26 ottobre, (con ritardo imputabile, in parte, a seri problemi alla falda acquifera), quindi con tre anni di ritardo rispetto alle celebrazioni dell’anno Santo. Vale comunque la pena sottolineare l’esito positivo di un concorso internazionale di architettura in Italia, aspetto non così scontato nel contesto operativo del nostro Paese. Ed andrebbe anche sottolineato il fruttuoso contesto storico-costruttivo romano in cui veniva a collocarsi quest’opera, che vedeva la realizzazione di alcune importanti opere pubbliche, tra le quali il nuovo parco della musica dell’architetto Renzo Piano (inaugurato nel 2002) e il nuovo Centro per le Arti Contemporanee dell’architetto iracheno Zaha Hadid (1998 bando; 2010 inaugurazione ufficiale).

Fotografie di Johnny Farabegoli

 

3. Impianto compositivo e valori urbanistico-architettonici

Nel caso della chiesa di Richard Meier, il nuovo intervento si inserisce all’interno del complesso residenziale di Tor Tre Teste con una incisiva dinamica spaziale: sia in rapporto allo spazio costruito circostante (prevalentemente un tessuto residenziale), sia nella sua specifica articolazione compositiva interna. Per chi giunge alla chiesa da via Tovaglieri, il complesso parrocchiale si staglia come quinta scenografica dal forte impatto visivo, in cui, in particolare, il dinamico articolarsi di tre grandi “vele”, la più alta raggiunge gli oltre 25 metri, si contrappone alla rigida disposizione dei lunghi e compatti blocchi residenziali che delimitano, prospetticamente (via Tovaglieri) l’area di progetto.

Anche il colore bianco della “pietra artificiale”, il calcestruzzo bianco, usato per le tre “vele”6 non fa che accentuare ancor di più il “contrasto” compositivo dell’insieme urbanistico quartiere-chiesa. Non casualmente si è usata però sopra la denominazione di complesso parrocchiale, essendo la chiesa, come richiesto dal bando, parte di un più ampio raggruppamento funzionale di servizi, ricomponendosi in quello che l’architetto Franco Purini ha definito quale «dittico concettualmente stridente»7. Di fatto, la composizione planimetrica sembra accostare, lungo un asse verticale, due parti fondamentalmente differenziate: da una parte, a sinistra, l’aula contraddistinta dalla funzione avvolgente dei tre “gusci” dalle giaciture non parallele «leggermente perturbate dallo slittamento dei loro centri, in un ardito saggio di spazialità neobarocca che si dispiega in torsioni e accelerazioni»8; dall’atra, a destra, la volumetria delle opere parrocchiali «che raffredda e contiene l’esuberanza delle curvature progressivamente crescenti, enumerando, come in un compendio mnemonico l’alfabeto modernista»9.

Una composizione d’insieme quindi che si configura all’interno di una perimetrazione quale «recinto in parte sacro e in parte laico»10, prospettandosi quale dinamica positiva per la stessa vita sociale del quartiere. All’edificio liturgico vero e proprio sono infatti affiancati un auditorium, aule per l’insegnamento e un articolato spazio all’aperto. Una idea complessiva di chiesa, quindi, che, pur nella limitata superficie dell’area d’intervento a disposizione, appare giustamente intesa nella sua specifica funzione di luogo d’incontro e di interrelazioni. E d’altronde era stata proprio questa la cifra fondamentale della richiesta progettuale avanzata dallo stesso Vicariato di Roma che nel documento di bando precisava: «Il luogo prescelto è l’estrema periferia della città dove tutto, e dal punto di vista del territorio, e dal punto di vista sociologico, e dal punto di vista pastorale, dice bisogno di accoglienza.

Non è un luogo urbanisticamente “nobile”. Lo diventerà con il nuovo edificio, luogo accogliente. Luogo di “Chiesa”. In questo senso l’edificare sarà autentico servizio all’uomo. In frange di territorio per nulla “forti” la nuova chiesa svolgerà un ruolo di riqualificazione. Così, insieme, si propone il problema moderno dell’andare in un luogo difficile, e il problema della Chiesa dell’oggi, la nuova “evangelizzazione”». E il testo proseguiva osservando: «Quel che si chiede all’architetto è di progettare uno spazio che dica luogo di accoglienza, luogo di convocazione, luogo di Chiesa. Questa è l’unica significazione richiesta, nella convinzione che l’architetto potrà esprimerla nel suo fare architettura»11.

Valori simbolico-teologici: l’intitolazione “Dives in Misericordia”

Sicuramente, la chiesa progettata dall’architetto americano Richard Meier, in quel frangente di tempo, sembra aver ridonato al tema compositivo dell’edificio di culto una rinnovata valenza e dignità espressiva. La chiesa, architettonicamente, appare connotarsi, come già osservato precedentemente, a partire da un triplice segno costituito da tre grandi “vele”12 di diversa altezza (rimando simbolico alla Trinità, come pure riferimento alla Chiesa che doveva traghettare i suoi fedeli alle soglie del terzo millennio), generate in pianta da tre semicerchi traslati di ugual raggio e che al loro interno scandiscono lo spazio per il fonte battesimale, per la cappella feriale e per i confessionali. Al centro dell’impianto si apre l’aula del rito, moderna interpretazione dello spazio della navata, con una disposizione semplice ed ordinata degli elementi del presbiterio, quali l’altare, l’ambone e la sede del celebrante. E non vi è dubbio che l’impianto interno risenta, per chiarezza di disposizione, di quelle indicazioni presenti nella Nota pastorale su La progettazione di nuove chiese voluta proprio dalla CEI precedentemente ricordata.

A questo punto, più che inoltrarsi in una descrizione dei molteplici dettagli costruttivi, forse aspetto eccessivamente tecnicistico e che richiederebbe altro contesto, merita invece qui ricordare, per l’orizzonte d’interessi della Rivista Arti&Teologie, un interessante articolo del frate domenicano Giacomo Grasso (scomparso nel 2022), da titolo Tra teologia e architettura, pubblicato sulle pagine della rivista «L’architettura. Cronache e storia», il numero 484 del 199613 (monografico, dedicato proprio agli esiti del concorso per la chiesa a Tor Tre Teste), in cui osservava lucidamente come «progettare chiese, per poi costruirle, chieda molto alla teologia»14, aggiungendo subito dopo: «Attenzione. Questo chieder molto non va banalizzato. Chiedere molto alla teologia non vuol dire che il progettista debba munirsi di un consulente-teologo. Vuol dire semmai che la committenza ecclesiale deve per prima rivolgersi alla teologia»15.

E la teologia, ribadiva Grasso, «nella sua dimensione più propria, è mediazione tra la Rivelazione e l’uomo. L’uomo dell’oggi, se la teologia è dell’oggi. L’uomo dell’oggi, tra i tanti problemi che lo avvolgono, ha quello dell’arduo (“l’andare in luogo difficile”). È questo l’estremo confine della terra, ove andare a battezzare (cfr. Mt 28,19; Mc 16,15). “La nuova evangelizzazione”»16.

Facendo proprie infatti le parole del bando precedentemente ricordate, ossia che «il problema della Chiesa oggi» è quello di andare ad evangelizzare un «luogo difficile», chiedendo all’architetto «di progettare uno spazio che dica luogo d’accoglienza, luogo di convocazione, luogo di Chiesa [perché questa] è l’unica significazione richiesta», Grasso individuava in questa prospettiva la cifra-teologica fondamentale dell’operazione concorsuale della CEI, e che oggi, dopo il pontificato di Papa Francesco, possiamo riconoscere nell’istanza di una Chiesa necessariamente “in uscita”. Non è un caso allora che la chiesa sia stata intitolata, per volontà di San Giovanni Paolo II, a Dio ricco di Misericordia, Dives in Misericordia, con chiaro riferimento alla sua omonima Lettera enciclica del 198017. Questa particolare intitolazione della chiesa di Tor Tre Teste appare di particolare interesse.

Di fatto, proprio il “rendere” manifesta la misericordia di Dio appare una delle priorità della Lettera enciclica del pontefice. «Render presente il Padre come amore e misericordia – scrive infatti San Giovanni Paolo II – è, nella coscienza di Cristo stesso, la fondamentale verifica della sua missione di Messia»18, così come «confermano le parole da lui pronunciate prima nella sinagoga di Nazaret, poi dinanzi ai suoi discepoli ed agli inviati di Giovanni Battista»19.

E «Gesù – aggiunge sempre il pontefice – fa della misericordia stessa uno dei principali temi della sua predicazione»20. Per questo allora, sottolineava sempre San Giovanni Paolo II, la Chiesa deve farsi carico di questa prospettiva prendendo «una più profonda e particolare coscienza della necessità di render testimonianza alla misericordia di Dio in tutta la sua missione»21, anzi: «deve rendere testimonianza alla misericordia di Dio rivelata in Cristo, nell’intera sua missione di Messia»22. Non si può quindi non riscontrare una coerenza teologica di fondo tra le “raccomandazioni” del pontefice e le stesse istanze del bando del Vicariato di Roma, là dove si sottolinea, come si è visto precedentemente, che «il luogo prescelto è l’estrema periferia della città dove tutto […] dice bisogno di accoglienza», ed, in ultima istanza, della stessa misericordia di Dio, che è amore che accoglie.

L’area di Tor Tre Teste quindi, «nella periferia più smarrita e disperata della capitale» (in questi termini si esprimeva la nota redazionale di apertura della rivista «L’architettura. Cronache e storia» presentando l’esito del concorso23), diviene così il “terreno” in cui l’edificazione di una nuova chiesa si fa concreto atto missionario della Chiesa stessa, segno di evangelizzazione e testimonianza viva della presenza della misericordia di Dio.

La stessa Lettera Dives in Misericordia, inoltre, può suggerire un’ulteriore importante considerazione sull’articolazione interna della chiesa, là dove il documento puntualizza che se «nel compimento escatologico la misericordia si rivelerà come amore»24, nella temporaneità della storia umana «l’amore deve rivelarsi soprattutto come misericordia ed anche attuarsi come tale»25. Motivo per cui «il programma messianico di Cristo – programma di misericordia – diviene programma del suo popolo, programma della Chiesa»26, dove «al centro di questo sta sempre la croce, poiché in essa la rivelazione dell’amore misericordioso raggiunge il suo culmine»27.

Ecco, quindi, che fulcro dello spazio liturgico interno, e centro “centrifugo” e “centripeto” dello stesso viale d’accesso (Tovaglieri), “appare” il grande crocifisso “sospeso” (opera del XVII secolo, di artista ignoto28), che si staglia, quale cifra assoluta, sopra lo spazio prisbiteriale, quasi a ricordare i crocifissi sospesi sopra le iconostasi degli spazi liturgici medievali. Un crocifisso sospeso in uno spazio di luce, esaltata quest’ultima dal connubio tra il bianco delle pareti e dalla claritas delle grandi vetrate che sigillano l’edificio. Una visione che, a sua volta, ci proietta in una dimensione escatologica, quella contenuta nelle parole dell’Apocalisse di Giovanni: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò a lui, cenerò con lui ed egli con me»29. Ancora una volta, lo spazio – quello liturgico – si fa apertura a quel «bisogno di accoglienza» che è insito nel cuore di ogni uomo.

Considerazioni conclusive: tra passato e presente

A circa trent’anni dagli eventi sopra descritti, questa chiesa, nonostante alcune criticità apparse con il tempo30, mantiene ancora tutta la sua forza espressiva, qualificandosi ancora come “spazio” d’incontro e luogo di accoglienza, secondo quei principi che ne avevano sollecitato l’ideazione. Questa chiesa rappresenta una tra le ultime testimonianze di quella straordinaria spinta ad edificare nuovi complessi parrocchiali che aveva animato le scelte “missionarie” del Vicariato di Roma agli inizi degli anni Novanta, all’interno di un orizzonte “culturale” particolarmente fecondo.

Oggi è cambiato radicalmente il panorama “operativo” ecclesiale. Sempre più in questi anni, si sta assistendo invece ad un fenomeno “critico” di segno opposto, ossia quello delle dismissioni dei luoghi di culto. Ne sono testimonianza due recenti convegni internazionali: quello dal titolo Dio non abita più qui? Dismissioni di luoghi di culto e gestione integrata dei beni culturali ecclesiastici, svoltosi a Roma nel novembre 2018 e promosso congiuntamente dal Pontificio Consiglio della cultura, dall’Ufficio per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto della CEI e dalla Pontificia Università Gregoriana31, e il più recente Territori di chiese in trasformazione, svoltosi a Bologna nel maggio 2025 e promosso dalla Fondazione Centro Studi per l’architettura sacra “Cardinale Giacomo Lercaro” in collaborazione sempre con l’Ufficio per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto della CEI32.

Tale complesso fenomeno, finanche la stessa alienazione del patrimonio di edifici ecclesiali, negli ultimi anni si sta configurando con sempre maggiore cogenza. Di fatto, si tratta di un processo con un’ampia ricaduta di carattere internazionale, con punte di particolare rilevanza in alcuni paesi di ambito europeo (Olanda, Francia e Germania), i quali presentano strategie operative del tutto differenziate e non riconducibili ad un’unica visione metodologica d’intervento.

Di fatto, si passa dalle pratiche più spregiudicate (demolizioni o rifunzionalizzazioni “dissacranti”) alla mera conservazione priva però di ogni istanza di valorizzazione, che molto spesso ha come esito l’inevitabile chiusura degli immobili e delle loro pertinenze (canoniche comprese). Il fenomeno sicuramente è frutto di una molteplicità di processi in atto, tra i quali: il progressivo spopolamento delle aree rurali; l’invecchiamento anagrafico del clero e la parallela diminuzione delle vocazioni sacerdotali; una comprovata difficoltà nella tutela di un patrimonio storico costituito da numerose chiese la cui gestione e manutenzione richiede risorse economiche non sempre disponibili; non ultimo, un non facile raccordo tra quelle istanze magisteriali della Chiesa che riconoscono nei beni ecclesiastici uno straordinario “deposito culturale” ed i livelli locali – diocesani e parrocchiali – che spesso finiscono col considerare proprio questo “patrimonio” di beni quale preoccupante fonte di incombenze gestionali.

Ma i processi di trasformazione dei luoghi di culto hanno sempre interessato la storia della Chiesa, e per questo motivo l’attuale orizzonte in atto, seppur particolarmente accentuato, non va considerato solo quale “risvolto critico” (per alcuni quasi “apocalittico”!) della nostra contemporaneità, ma, diversamente, quale rinnovata fase di trasformazione della Chiesa e della società. In sostanza, senza sottovalutarne la portata, il fenomeno andrebbe interpretato come opportunità, al fine di individuare nuove strategie di valorizzazione all’interno di un orizzonte necessariamente comunitario, sia religioso sia civile, alla luce di una prospettiva scevra da sguardi nostalgicamente ancorati al passato.

La chiesa Dives in Misericordia, con la sua propensione a coltivare l’accoglienza dell’uomo, può ancora insegnarci qualcosa, in quanto rimane pur sempre una testimonianza, anche se segnata dal tempo, della misericordia di Dio in mezzo agli uomini.


NOTE

1. I. Breccia Fratadocchi, La Diocesi di Roma nella seconda metà del XX secolo, in S. Mavilio, Guida all’architettura sacra. Roma 1945-2005, Electa, Milano 2006, 27.
2. F. Garofalo, The church of the Year 2000 6-1=5, in «Casabella», LX, dicembre 1996-gennio 1997, n.640-641, 88- 105.
3. Ibid., S. Mavilio, Guida all’architettura sacra, 205-206.
4. Ibid., I. Breccia Fratadocchi, 27.
5. Ibid., 28.
6. La complessità che ha accompagnato la realizzazione di queste tre vele è descritta nell’intervista di Chiara Baglione all’ing. Gennaro Giada (progettista delle strutture dell’opera, come responsabile della Direzione Opere Civili del Centro Tecnico del gruppo Italcementi di Bergamo), dal titolo Concezione strutturale e costruzione delle vele, in «Casabella», n.715, 20-27.
7. F. Purini, Troppo divina, in ibid., 8.
8. Ibid.
9. Ibid.
10. Dalla Relazione di progetto, in «L’architettura. Cronache e storia», LXVII, n.484, 1996, 73.
11. Ibid, Intenzionalità del committente, 70.
12. Come ha rilevato l’ing. Gennaro Guala, nell’intervista sopra citata alla nota n.6, «L’unico punto oggetto di discussione è stata la nostra proposta di realizzare le vele in elementi prefabbricati, cosa che non consentiva di ottenere la superficie uniforme e priva di giunti inizialmente immaginata da Meier. A mio avviso, la presenza di giunti si è rivelata un vantaggio, perché rende maggiormente percepibile il fatto che la superficie delle vele è sferica. Meier ha accettato l’idea e ci ha fornito indicazioni molto precise sulle dimensioni dei giunti tra i conci», in Concezione strutturale e costruzione delle vele, cit., 20.
13. G. Grasso, Tra teologia e architettura, in ibid., pp. 68-69. La riflessione di Grasso recupera un orizzonte concettuale già presente nel suo testo Tra teologia e architettura. Analisi dei problemi soggiacenti all’edilizia di culto, Borla, Roma 1988, e sviluppato nel suo testo successivo Come costruire una chiesa. Teologia, metodo, architettura, Borla, Roma 1994.
14. Ibid., 68.
15. Ibid..
16. Ibid..
17. L’espressione, che apre la Lettera enciclica, è tratta a sua volta dalla Lettera agli Efesini: «Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere in Cristo: per grazia siete salvati», Ef.2,4-5 [Deus autem, qui dives est in misericordia, propter nimiam caritatem suam, qua dilexit nos, et cum essemus mortui peccatis, convivificavit nos Christo – gratia estis salvati].
18. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Dives in Misericordia
19. Ibid..
20. Ibid..
21. Ibid..
22. Ibid..
23. Editoriale (s.a.), Richard Meier al posto di Bramante, in «L’architettura. Cronache e storia», 66.
24. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Dive in Misericordia, cit.
25. Ibid.
26. Ibid.
27. Ibid.
28. La croce è in legno, mentre il corpo del Cristo è in carta pesta. L’opera proviene da una parrocchia romana ed è stata donata alla chiesa in occasione della dedicazione.
29. Ap. 3,20.
30. In particolare la graduale perdita della colorazione biancastra iniziale, che invece l’impiego del cemento bianco speciale TX Millenium, mescolato con inerti di marmo di Carrara per la realizzazio per la realizzazione del calcestruzzo delle vele, avrebbe dovuto garantire nel tempo, in quanto “brevettato” per impedire l’attacco dagli agenti atmosferici. Evidentemente è mancata nel tempo anche una certa manutenzione “ordinaria” degli stessi blocchi-conci di calcestruzzo, in particolare quelli esterni. Anche i giunti tra i diversi conci delle vele (sempre con riferimento particolare a quelli esterni) presentano evidenti segni di ossidazione rimarcando così eccessivamente la squadratura delle vele stesse.
31. AA.VV., Dio non abita più? Dismissioni di luoghi di culto e gestione integrata dei beni culturali ecclesiastici, Atti dell’omonimo convegno tenutosi Roma presso la Pontificia Università Gregoriana il 29-30 novembre 2018, a cura di F.Capanni, Artemide, Roma 2019.
32. L’uscita degli Atti di questo convegno è prevista per la fine del 2025.