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Vittorio Rocca

Non si può parlare di vita cristiana se non si ha in sé il senso del peccato. Esso non può essere inteso soltanto in una prospettiva minimalistica o legalistica (la trasgressione di un precetto), ma va compreso come qualcosa di più profondo e volontario, che si manifesta nel rifiuto, almeno pratico, di riconoscere Dio come Dio e nella separazione dai fratelli e dal resto del creato. Dal vero senso del peccato, dunque, nasce la fede nella liberazione operata da Cristo e, di conseguenza, l’impegno della conversione, della riconciliazione e del perdono. Un tema, questo del perdono, ampiamente diffuso nelle arti e nella letteratura1.

Per parlare del perdono esaminiamo il racconto del primo peccato, del peccato originale (Gn 3). La creazione che ci viene raccontata nel libro della Genesi è stata voluta da Dio “bella” e “buona”, toccando il suo apice nella relazione di coppia (capitoli 1 e 2). Il racconto di Genesi evidenzia l’armonia esistente nella prima coppia umana. Adamo e la sua donna sono inseriti nell’ordine cosmico, il “giardino” (= “paradiso”) dell’Eden, per custodirlo e coltivarlo. Si vive in un clima di fiducia e di dono. Tuttavia, in questo contesto così “paradisiaco”, la prima coppia commette il peccato, scegliendo di uscire fuori dal sentiero tracciato da Dio (Gn 3,5). La prima coppia umana rappresenta l’intera umanità; ciò che si afferma al riguardo vale per ogni uomo e ogni donna.

Il racconto ci descrive il peccato come un processo di lento allontanamento da Dio. Il male infatti si manifesta in forma “strisciante” (il serpente) e non è facile riconoscerlo. Perché proprio il serpente? Il serpente rappresenta le forze inumane, istintuali, che istigano al male. La sua strategia consiste in discorsi seducenti, ingannevoli, ma nello stesso tempo allettanti, che fanno sognare un mondo “diverso”: «Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?» (Gn 3,1). «Non morirete affatto» (Gn 3,4). «Diventerete come Dio…» (Gn 3,5). Le parole del serpente sono seducenti e fanno leva sulla loro capacità di attrazione, che si avverte immediatamente e per ben tre volte (v. 6): «buono da mangiare… gradito agli occhi… desiderabile». Attenzione! Questo è quel che accade quando anch’io non riesco a resistere tra istigazione esteriore e inclinazione interiore. Il peccato non si presenta mai come qualcosa di “brutto”, ma sempre come realtà buona, gradita, desiderabile. Il doppio meccanismo, esterno ed interno, si rivela irresistibile e travolge tutti gli ostacoli.

Il comportamento sbagliato consiste nella mancata osservanza di un comandamento di Dio, conosciuto come tale (Gn 2,17 con Gn 3,3). Il peccato, così suggerisce la tradizione della fede cristiana, prima ancora che trasgressione delle leggi, è rifiuto del regime della legge. Corrisponde al sospetto che la legge sia data all’uomo per invidia di Dio, o comunque di un padrone.

Infatti, nel capitolo secondo (Gn 2,16-17) Dio ha detto all’uomo che può nutrirsi di ogni albero del giardino e questo precede il divieto di mangiare del solo albero della conoscenza del bene e del male. In altre parole Dio dice all’uomo che può fare tutto quello che vuole: l’unica cosa che non può fare è mettersi al posto di Dio. L’uomo è dunque libero però deve riconoscersi creatura e non Creatore. Per vivere può e deve mangiare di tutto ma non il “tutto”; al fondo del dono ricevuto c’è un limite, che altro non è che lo spazio lasciato al donatore, a Dio. L’albero del bene e del male simbolizza la relazione tra Dio e l’uomo che resta salda nella misura in cui l’alterità di Dio viene rispettata dall’uomo.
Il peccato, grave o lieve che sia, in fondo, seppure a profondità diverse, è sempre rifiuto di essere figlio, di essere creatura. Il primo peccato, come abbiamo appena visto, consiste nel volersi appropriare del dono di Dio, rompendo però la relazione vivente con la fonte di questo dono. L’uomo (ma anche io quando pecco) vuol prendere il posto di Dio facendosi da sé e per sé la legge, determinando lui stesso (senza Dio) ciò che conduce alla vita o ciò che rinchiude nella minaccia di morte. Questa è la figura e la radice di ogni peccato. Si pretende di agire da soli, al di fuori della relazione con Dio. Il peccato è allora il rifiuto della condizione filiale, ossia del restare per amore all’interno della casa del Padre che possiede la vita e che vuole donarla in abbondanza. Ecco cos’è anche il mio peccato: perdere l’amicizia con Dio. L’amicizia è una grande e bella realtà; la mancanza di amicizia però non è una realtà, ma un tremendo vuoto, una terribile mancanza.

Il peccato è una perdita e ci viene presentato come un tradimento della libertà e della fiducia, che produce un terribile fallimento (altro che guadagno!). Anche il nostro linguaggio corrente lo sottolinea con rammarico: “peccato! È un vero peccato”. Si sottolinea ciò che si è perso, la privazione, il fallimento. Un fallimento che provoca conseguenze nefaste: l’allontanamento da Dio, la paura, il nascondersi, la divisione, l’accusa reciproca, la mancanza di futuro, l’insicurezza, il vuoto.

Adamo ed Eva aprono gli occhi sì, ma non perché sono diventati come Dio, bensì sulla loro nudità (v. 7). Di conseguenza le parole del serpente, secondo cui si sarebbero aperti i loro occhi (v. 5), si realizzano, ma in un modo ironico e inatteso: l’esperienza del peccato fa loro scoprire da un lato la mancanza di protezione e dall’altro il bisogno di protezione.
Allora si nascondono dal Creatore (v. 8) e, per la prima volta, hanno paura (v. 10). In risposta alla richiesta di Dio (v. 11), Adamo accusa la moglie (v. 12) e quest’ultima il serpente (v. 13). Nessuno si assume la responsabilità di quanto accaduto. Il peccato innesta sempre un processo dinamico che conduce a un profondo e crescente disordine della relazione. Non è mai soltanto una “semplice” trasgressione. Con il peccato rifiuto di essere libero e responsabile davanti a Dio nel momento stesso in cui pretendo di esserlo diventato.

Di fronte all’umanità incapace di essere responsabile della propria libertà cosa fa il Creatore? Dio risponde rinnovando la sua misericordia: interviene nel giardino richiamando Adamo, giudicando il peccato e ristabilendo l’ordine: d’ora in poi il serpente striscerà mangiando polvere della terra, la donna partorirà nel dolore e l’uomo si guadagnerà il pane con il sudore della fronte (vv. 14-19).

Subito dopo, Adamo ristabilisce il dialogo interrotto dal peccato con la donna che chiama “Eva” e il Creatore fabbrica tuniche di pelle perché la coppia venga rivestita (erano nudi e se ne vergognavano). Desidero fermarmi su questo particolare del racconto. L’uomo e la donna, malgrado il loro fallimento, non sono abbandonati a loro stessi, ma sperimentano ancora la cura amorevole di Dio: sono rivestiti, ricevono cioè un nuovo abito, una nuova possibilità di vita. Non possono più rimanere nello stato paradisiaco del giardino. Il peccato ha rotto quell’armonia. Però possono ripartire perché Dio stesso li “riveste”, li rimette in cammino verso una nuova casa, verso un nuovo progetto di riconciliazione e di comunione. Li riveste di “tuniche di misericordia!” Mi piace pensare che quando vado a confessarmi e mi riscopro “nudo” a causa del mio peccato, il “sarto” misericordioso pensa anche a me e si mette a cucirmi un nuovo abito, rivestendomi di una tunica per dirmi attraverso le parole del ministro: «il Signore ha perdonato i tuoi peccati, va in pace!».

Il punto di partenza è lo sguardo gettato sulla propria nudità, sul proprio abisso interiore. E spesso ciò che possiamo scoprire ci fa provare vergogna, senso di vuoto, ci fa star male. Affiora così la disperazione. E, purtroppo, c’è chi si ferma lì, su quel baratro e si “nasconde”. La confessione in fondo comincia da una situazione di disperazione. Però c’è una mano che ci afferra e che ci fa ricominciare il cammino e così si riscopre la speranza, la rigenerazione, la nuova vita. La confessione è proprio sul crinale tra disperazione e speranza. Pascal l’ha descritto in modo folgorante, da par suo: «I tuoi peccati ti saranno rivelati nel momento stesso in cui ti saranno perdonati».
Il racconto del cosiddetto “peccato originale” ci rivela in definitiva non solo la nostra fragilità e miseria, ma ci rivela ancor di più e da subito chi è Dio: è il Dio della vita, il Dio di nuovi cammini, di nuovi abiti, l’Abbraccio che mi aspetta!


NOTE

1. Da Delitto e Castigo di Fedor Dostoevskij, a titolo esemplificativo, vale la pena rileggere una delle pagine più pregnanti. Semën Zacharovič Marmeladov è un ubriacone senza speranza, che per il bere ha più volte perso il lavoro da impiegato. La sua adorata figlia Sonja per poter mantenere la famiglia, in presenza di un padre così sciagurato, è stata condotta alla prostituzione, pur mantenendosi ancora estremamente religiosa. Riporto il monologo di Marmeladov, ubriaco nell’osteria, poco prima di morire travolto dai cavalli di una carrozza:

«Pensi tu, o vinaio, che questa tua mezza bottiglia mi si sia tramutata in delizia? Tristezza, tristezza cercavo io in fondo ad essa, tristezza e lacrime, e l’ho assaggiata, e le ho trovate, e avrà pietà di noi Colui che di tutti ebbe pietà, e Colui che tutti e tutto capì. Egli è l’unico. Egli è anche il giudice e verrà quel giorno e domanderà: “E dov’è la figlia che si consacrò ad una matrigna cattiva e tisica, ai teneri bambini altrui? Dov’è la figlia che del padre suo terreno, ubriacone e sregolato ebbe pietà, senza sgomentarsi dell’essere suo bestiale?” e dirà: “Vieni, io già ti perdonai una volta, ti perdonai una volta, si perdonino dunque anche adesso i peccati tuoi molti, perché molto amasti. E perdonerà la mia Sonja, la perdonerà, io ormai so che la perdonerà, questo lo sentii poco fa quando ero da lei nel mio cuore. E tutti giudicherà, e perdonerà i buoni e i cattivi, i sapienti e i mansueti, e quando già avrà finito con tutti, allora favellerà anche a noi: “Venite avanti, dirà, anche voi, ubriaconi, venite avanti tutti senza vergognarvi”, e noi ci faremo avanti tutti senza vergognarci e ci fermeremo e dirà: “Porci, siete, immagini e impronte di bestialità, ma venite anche voi”, e favelleranno i sapienti, e favelleranno i saggi: “Signore, perché accogli costoro?”, e dirà: “Per questo li accolgo, o sapienti, per questo li accolgo o saggi: perché non uno di costoro si è mai stimato degno di ciò, e ci tenderà le mani sue e noi ci prostreremo e piangeremo e capiremo tutto!»

F. M. DOSTOEVSKIJ, Delitto e castigo, Milano 2013, 26.
Pochi hanno spiegato e descritto così bene la misericordia di Dio.