PER UN’ECOLOGIA ARTISTICA
di Bruno Bignami
1. Il «quanto»
Cosa può fare l’arte per l’ambiente? C’è un «quanto» e un «come» da mettere a fuoco.
L’arte può fare moltissimo. Non per intervenire direttamente sulle condizioni climatiche del pianeta, ma per favorire una formazione antropologica sul valore del prendersi cura. L’enciclica sociale Laudato si’ (LS) di papa Francesco lo ha denunciato: il paradigma tecnocratico causa un riduzionismo della vita umana. Incrementa la volontà di dominio sulla creazione e impoverisce le relazioni. L’affidamento cieco alla tecnologia non risolve. Aiuta ad affrontare i drammi legati all’inquinamento, alla riduzione di emissioni di CO2 nell’atmosfera; contribuisce a risolvere problemi e a migliorare condizioni di vita, ma non basta. Due esempi possono aiutarci a capire. Pensate che sia sufficiente passare dalle auto a combustibile fossile a quelle elettriche se continua la logica consumistica di un veicolo per ogni persona? Avremmo comunque il problema della disponibilità delle risorse, che comunque sono limitate. La soluzione richiederebbe una messa in discussione della mobilità stessa: non un’automobile per ciascuno, ma l’utilizzo condiviso di mezzi di trasporto e il rafforzamento dei mezzi pubblici nelle città.
Come si vede, è anche questione di qualità dei rapporti sociali: a dare la svolta risolutiva sarà la scelta di condividere un veicolo con più persone. Altro esempio: ci si può illudere che per uscire dalla pandemia attuale sia sufficiente puntare sulle vaccinazioni e sull’immunità di gregge? È sicuramente importante, ma c’è anche bisogno di altro. Dobbiamo chiederci che cosa ci ha portato a questo punto, ingannandoci che ognuno possa salvarsi da solo, con le sue sole forze. Il paradigma tecnocratico dimentica le differenti dimensioni dell’antropologia umana. Ecco perché la proposta di LS è l’ecologia integrale. «Tutto è connesso»: la crisi ambientale è anche crisi sociale, il grido della terra e quello dei poveri vanno ascoltati insieme, i problemi sanitari hanno implicazioni sociali, economiche, lavorative, culturali, ecologiche e spirituali. Assolutizzare un aspetto a scapito di altri significa dare voce a una «forma di ignoranza» – come sostiene Francesco in LS 138 – e allontanarsi da possibili soluzioni concrete.
Il paradigma tecnocratico ha coltivato un antropocentrismo dispotico. L’uomo si è pensato despota, rinnegando se stesso e calpestando la creazione. Dalla cura delle relazioni si è passati all’eliminazione della biodiversità. Lo testimoniano la crisi ecologica con il clima impazzito, l’inquinamento dell’aria col particolato, il degrado sociale causato dalla cultura dello scarto, la debolezza della reazione politica, la paralisi di alcuni ambienti educativi, le chiusure di mondi economici nel modello di sviluppo corresponsabile di disastri ecologici e così via. Si è ottenuto un livello tale di inquinamento da giustificare l’amara conclusione di Giorgio Caproni nella poesia Versicoli quasi ecologici:
«Non uccidete il mare,
la libellula, il vento.
Non soffocate il lamento
(il canto!) del lamantino.
Il galagone, il pino:
anche di questo è fatto
l’uomo. E chi per profitto vile
fulmina un pesce, un fiume,
non fatelo cavaliere
del lavoro. L’amore
finisce dove finisce l’erba
e l’acqua muore. Dove
sparendo la foresta
e l’aria verde, chi resta
sospira nel sempre più vasto
paese guasto: “Come
potrebbe tornare a essere bella,
scomparso l’uomo, la terra”»1
L’arte poetica in pochi versi scolpisce concetti che la riflessione filosofica può fare solo in modo più articolato. Caproni intuisce che l’uomo è fatto di relazioni, ma nella misura in cui calpesta e inquina, la sua presenza diventa un problema. È come se segasse il ramo su cui è seduto. La questione è antropologica e l’arte può fare molto per suggerire un diverso modello di umanità ed educare persone capaci di abitare le relazioni con senso di responsabilità.
Accanto al paradigma tecnocratico, sul versante opposto, si è affermato il naturalismo biocentrico o cosmocentrico. Esso propone una visione olistica della natura come un «Tutto» all’interno del quale trova spazio l’uomo. Si è configurata come reazione all’antropocentrismo, ma ha finito per riesumare il mito di una natura buona in sé, che non ha bisogno della presenza umana. Anzi, ad essere rigorosi, secondo questa concezione, l’uomo rappresenta un problema. «Meno uomo e più natura», potrebbe recitare lo slogan. L’«ipotesi Gaia» avanzata da James Lovelock sostiene che il pianeta Terra è un organismo vivente e compiuto, capace di autoregolarsi con le proprie leggi interne. Questa centralità della vita come bios comporta la marginalizzazione dell’uomo, secondo una strada già indicata dalla deep ecology di Arne Naess. La natura si presenta come autosufficiente e capace di sostenersi da sé. Si giunge così al paradosso di proporre una natura pura, selvaggia e incontaminata senza accogliere l’idea che possa esistere una natura umana. Una natura senza trascendenza sfocia in un pericoloso panteismo.
Anche in questo paradigma non trova spazio l’ingegno umano, la forma artistica, la creatività gioiosa di contemplare e trascendere la natura. Una natura che estromette l’uomo diviene muta e alla fine persino matrigna. Fuori dalla relazione con l’uomo, il creato non può essere pensato né come materia espressiva nel campo artistico né come fonte di ispirazione. Ecco l’ennesimo riduzionismo che avvilisce e scardina! Nel panteismo della natura come Tutto, nessuna bellezza potrà salvare l’uomo: la salvezza sarà intesa in senso esclusivamente naturalistico.
La poesia Vermeer di Wisława Szymborska riconosce, invece, il valore dei piccoli gesti quotidiani capaci di edificare un mondo diverso, dove c’è spazio per l’agire di ognuno:
«Finchè quella donna del Rijksmuseum
nel silenzio dipinto e in raccoglimento
giorno dopo giorno versa
il latte dalla brocca nella scodella,
il Mondo non merita
la fine del mondo»2
2. Il «come»
Se tutto questo è vero, come può fare l’arte? Riavvolgiamo il nastro e indichiamo sei servizi che l’arte può offrire alla questione ambientale.
Il primo contributo è in termini di tempo. L’arte è più seme che pianta. Molti artisti hanno faticato ad essere riconosciuti per quello che erano. L’autenticità di un’opera d’arte non dipende dalla sua comprensibilità. Come ricorda Romano Guardini, quanto più «un’opera è grande, oppure quanto più largamente l’artista precorre il gusto dell’epoca, tanto più ristretto sarà il numero di coloro che lo comprendono. In tal caso, lo aspetta una vita difficile»3. Da Caravaggio a van Gogh la schiera degli incompresi è abbastanza lunga. Anche alcuni grandi testi della letteratura sono stati scoperti postumi. Per non parlare poi dei poeti, dei musicisti e degli scultori. Spesso la loro arte si è affermata parecchi anni dopo. Non si tratta solo di capire che «nessuno è profeta in patria», ma di riconoscere che l’arte è pura gratuità. L’artista esprime se stesso e in questo modo fa di sé un dono all’umanità. La sua opera somiglia a un seme gettato nella storia più che a un albero visibile (e talvolta ingombrante).
Solo l’incontro con lo sguardo di qualcun altro che entra in rapporto profondo con la capacità espressiva dell’artista fa scattare la scintilla. A quel punto un uomo che aveva vissuto di stenti viene riconosciuto genio indiscusso. Il tempo gli dà ragione, ma quante sofferenze! L’analogia con l’ambiente naturale non appaia eccessivo, se persino papa Francesco in LS 18 ha parlato di «rapidación» (velocizzazione) come atteggiamento contrastante i ritmi della natura. La lentezza dell’evoluzione biologica fa a pugni con la volontà crescente di accelerare i processi. Servono tempi di maturazione perché la natura attui i suoi processi, così come all’uomo serve una capacità di riconoscimento dell’opera d’arte. Essa non è consegnata al solo committente, ma all’umanità tutta. Come ogni esistenza con la propria vocazione, la propria storia, la propria professione…
Un secondo legame tra arte ed ecologia è dato dallo sguardo che entrambe richiedono sulla realtà. L’arte educa alla bellezza. Chiede di accostarsi alla realtà con uno sguardo contemplativo. La simbologia di cui l’arte è portatrice educa la persona ad entrare in ciò che viene raffigurato o espresso attraverso l’intenzione dell’artista. C’è un messaggio di bellezza in ogni opera d’arte: più che spiegato va goduto. Proprio lo sguardo contemplativo è ciò che manca all’antropocentrismo dispotico e al paradigma tecnocratico. Se la creazione è una somma di oggetti, si scade nel materialismo più mediocre. La realtà è ridotta a un insieme di cose per le quali vale la logica «usa e getta».
La creazione è vissuta come un limone da spremere, lasciando dietro di sé solo scarti e rifiuti. La contemplazione consente di alzare lo sguardo. È questione di spiritualità. Il compositore francese Camille Saint-Saëns autore del Carnevale degli animali racconta che «una notte grazie al silenzio assoluto della campagna, intesi un accordo immenso appena udibile; questo accordo, aumentando d’intensità, si risolse in una nota unica, prodotta dal volo di una zanzara»4. Anche il ronzio di un insetto fastidioso come la zanzara può ispirare un’opera d’arte. Bisogna saper ascoltare quel canto e quel suono per percepirlo e farlo diventare musica.
Quando san Francesco d’Assisi scrive il Cantico delle creature, intorno al 1224, è ormai al termine della sua esistenza. Si rende conto che la vita gli sfugge. Quasi cieco, trova ispirazione nei Salmi e nella Scrittura per vedere in ogni cosa un fratello o una sorella. Tutto è dono ed egli si sente in comunione, attraverso il Creatore, con tutte le altre creature. La contemplazione del mistero gli consente di abitare il mondo con senso di gratitudine e di riconoscimento della bellezza. LS 12 scrive: «Il mondo è qualcosa di più che un problema da risolvere, è un mistero gaudioso che contempliamo nella letizia e nella lode».
Si richiede lo sguardo del bambino. È lo sguardo della semplicità. È lo sguardo dell’artista. Viene alla mente l’opera Chiaroveggenza di Renè Magritte: l’autore si ritrae mentre volge gli occhi verso un uovo sul tavolo alla destra e contemporaneamente dipinge sulla tela un uccello in volo. L’artista sa vedere oltre l’uovo per metterne in luce il destino verso cui è indirizzato.
Questa capacità di entrare nel profondo della realtà è fondamentale se si intende assumere la prospettiva promossa dall’ecologia integrale di papa Francesco. La cultura ecologica è un pensiero, un sogno, un programma educativo, una spiritualità, una cultura, uno stile di vita. Questo sguardo manca all’uomo economico, all’homo faber, all’uomo tecnologico o all’«uomo che non deve chiedere mai». La realtà si pone davanti a noi come problema, insegnava Gabriel Marcel, ma anche come mistero: nel primo caso si chiede alla tecnica una soluzione, mentre nel secondo caso ci si trova coinvolti e la risposta al mistero invoca condivisione e prossimità. Educare alla contemplazione è la condizione per apprezzare qualsiasi forma artistica, ma è anche il presupposto indispensabile per affrontare la crisi ambientale che è sotto i nostri occhi.
Un terzo aspetto da considerare è che l’artista è creatore. Si sa, l’opera della creazione non si conclude con la messa in moto della vita nelle sue diverse specie e realtà. Dio non è il grande orologiaio che dà il via al mondo e se ne disinteressa. Piuttosto, la creazione si prolunga nel tempo, istituisce coscienze e libertà che continuano e collaborano con l’opera divina. Certo, al contrario della creazione, l’opera di un artista è finita, ma il rapporto con lo spettatore e lo sguardo contemplativo portano a trascendere l’intenzionalità originaria di chi l’ha concepita. Dal punto di vista teologico, all’origine della creazione c’è la libertà creatrice che non realizza un’opera compiuta e definita una volta per tutte, ma aperta al suo compimento e al suo perfezionamento nella storia. Creare, nell’ottica di Dio Creatore, è mettere al mondo dei «creatori», che non si comportano come burattini eterodiretti, ma come artisti capaci di moltiplicare la bellezza, di far lievitare il processo creativo, di esercitare la libertà in modo propositivo. L’inventiva, la creatività, lo spirito di iniziativa e la fantasia sono parte integrante di un evento creatore che si rinnova e non si limita a dare il via all’esistenza delle cose. La teologia, giustamente, parla di creazione continua e di creazione nuova accanto alla creazione originale5.
Ciò significa che la creatività dell’artista continua nell’oggi la creazione e la novità rappresentata da un’opera d’arte rende migliore il mondo. C’è una consegna escatologica di cui l’arte si rende partecipe. E non è poco… Un quarto punto è dato dalla rappresentazione della realtà proposta dall’arte. Anche in questo caso torna utile la provocazione di René Magritte con la sua opera Ceci n’est pas une pipe (1929), ripresa dal filosofo Michel Foucault nel suo breve saggio pubblicato nel libro Le parole e le cose6. C’è una distanza tra la parola e la cosa, tra la rappresentazione e la realtà. Tutti i presupposti della pittura classica sono messi in discussione, perché non c’è alcuna verosimiglianza tra l’immagine figurativa e la parola. La classicità si basa sulla corrispondenza tra cose e parole, ma in verità ciò non appare fondato. Quando un artista del passato scriveva sull’opera Madonna con bambino, tale scritta era frutto della rappresentazione di una donna con il suo bambino. Quale corrispondenza con la Madre di Cristo? Magritte intuisce che le parole sono cose: esse hanno il potere di nominare il mondo e di costruire un mondo.
«La raffigurazione di una pipa può essere contraddetta dall’affermazione contraria perché la relazione che unisce il mondo delle “cose” a quello delle “parole” viene decisa da un gesto arbitrario che non è mai dato in natura ma è sempre frutto della cultura»7. Si opera così la decostruzione del linguaggio, che può essere arbitrario e mostrare la rinuncia a cercare un fondamento nella realtà. Paradossalmente, proprio questo semplice esercizio di Magritte, attraverso una pipa che non è pipa, aiuta a comprendere come gli oggetti non siano indifferenti alle parole: l’artista problematizza il rapporto umano con la realtà, il senso delle parole e il loro riferimento al mondo.
La rappresentazione di una cosa non è la cosa stessa. La provocazione riguarda la questione del reale e dell’immaginazione: le raffigurazioni riproducono qualcosa di reale o sono solo dei costrutti semantici? Niente di più attuale all’epoca delle tecnologie virtuali, attraverso le quali ci si illude che guardare un museo in 3D dallo schermo di casa equivalga ad un pomeriggio trascorso tra le sale e le opere della Galleria. Le immagini sono una finestra sulla realtà, ma non la sostituiscono. Gli esercizi dell’artista consentono di recuperare il senso della parola e il contatto esperienziale con la natura.
Un quinto aggancio tra arte ed ecologia prende spunto da un dato di fatto: ogni esperienza di bellezza custodisce la vita umana. La educa. Dona grazia all’esistenza. L’opera d’arte non rimane nella sfera della soggettività dell’artista che si esprime attraverso di essa. L’arte comunica anche qualcosa di universalmente valido, tanto che Romano Guardini vede nell’opera non solo un’espressione ma un’enunciazione: «è il mondo stesso a enunciarsi nell’opera d’arte»8. Nell’arte il senso profondo della realtà viene alla luce. L’artista è toccato dal mondo e attraverso la sua creatura tocca l’animo di chi guarda. Riprendendo una felice espressione di Maurice Merleau-Ponty, nell’opera d’arte l’autore è toccato-toccante (touché-touchant): è colpito dal fenomeno e lo fa diventare ponte verso l’altro9. L’arte è in grado di spezzare la logica secondo cui il progresso della tecnica è progresso dell’umanità e della storia. La gratuità del vivere umano necessita anche di altro. Per questo l’uomo è capace di reazione alla bruttezza e alla monotonia.
Persino la LS mette in guardia da opere architettoniche costruite in serie e senza bellezza: «Se l’architettura riflette lo spirito di un’epoca, le megastrutture e le case in serie esprimono lo spirito della tecnica globalizzata, in cui la permanente novità dei prodotti si unisce a una pesante noia. Non rassegniamoci a questo e non rinunciamo a farci domande sui fini e sul senso di ogni cosa. Diversamente, legittimeremo soltanto lo stato di fatto e avremo bisogno di più surrogati per sopportare il vuoto» (LS 113).
Dare un senso alle cose che si realizzano è esigenza dell’anima. Il tradimento è rappresentato da palazzi e grattacieli edificati in serie, tutti uguali e senz’anima: oltre a generare noia in chi guarda, suscitano senso di oppressione in chi ci vive e li abita.
Da ultimo, come sesto passaggio, l’arte è creazione che fa rima con relazione. Non c’è arte senza relazione. Nessuna opera è completa in se stessa. È lo spettatore a concluderne la realizzazione sulla base della propria lettura interpretativa e della capacità di coglierne il senso. Non c’è riconoscimento artistico senza incontro. Quando scatta l’alleanza tra un progetto artistico e una persona capace di comprenderne il valore, lì accade qualcosa di speciale. Analogamente, la creazione raggiunge il suo apice nel momento in cui incontra lo stupore umano. «Che bello!» è il commento incantato di chi accoglie l’opera e si lascia coinvolgere dall’idea sottostante. Così accade con l’ambiente.
Il vero miracolo non è che Dio ha creato il mondo, ma che ci sia l’uomo in grado di stupirsi. Ciò significa che la relazione tra l’artista, la natura, lo spettatore è parte integrante del progetto artistico. Non solo: dal punto di vista relazionale l’opera d’arte viene posta in relazione a un tutto che è l’universo. In ogni realizzazione si fa presente il mondo. Chi guarda viene introdotto in questa totalità. Lo spettatore non rimane sulla soglia ma vi entra e trova respiro all’anima: la sperimenta con il gusto, con lo stupore, con la gioia e con la bellezza. L’opera d’arte non si consuma, ma fa accadere un incontro ravvicinato tra mondi interiori. È saggia l’osservazione di Guardini quando confessa che «l’opera d’arte è spaziosa»10. Lì c’è posto per tutti.
3. Imparare l’arte
Papa Francesco riflette in LS 63 usando queste parole:
«Se teniamo conto della complessità della crisi ecologica e delle sue molteplici cause, dovremmo riconoscere che le soluzioni non possono venire da un unico modo di interpretare e trasformare la realtà. È necessario ricorrere anche alle diverse ricchezze culturali dei popoli, all’arte e alla poesia, alla vita interiore e alla spiritualità. Se si vuole veramente costruire un’ecologia che ci permetta di riparare tutto ciò che abbiamo distrutto, allora nessun ramo delle scienze e nessuna forma di saggezza può essere trascurata, nemmeno quella religiosa con il suo linguaggio proprio».
Imparare l’arte è dono per la vita umana, una forma di saggezza che arricchisce. E questo accade non solo perché la cultura è in grado di riempire di senso l’esistenza. Sono impagabili il verso di una poesia, una pagina di romanzo, un pomeriggio al museo, uno scatto di foto, un dipinto a contenuto storico o religioso: sono un pieno di vita, oltre che di bellezza. Due motivi associano l’arte e l’ecologia. In primo luogo, l’arte favorisce la cultura della cura. Educa alla bellezza. Apre squarci di gratuità.
Papa Francesco lamentava in LS 229 che
«già troppo a lungo siamo stati nel degrado morale, prendendoci gioco dell’etica, della bontà, della fede, dell’onestà, ed è arrivato il momento di riconoscere che questa allegra superficialità ci è servita a poco. Tale distruzione di ogni fondamento della vita sociale finisce col metterci l’uno contro l’altro per difendere i propri interessi, provoca il sorgere di nuove forme di violenza e crudeltà e impedisce lo sviluppo di una vera cultura della cura dell’ambiente».
L’arte incoraggia la cultura della cura. Sa offrire motivi di speranza. Appare possibile un nuovo modello relazionale, che va oltre il materialismo.
In secondo luogo, pensare l’arte come creazione significa sposare la prospettiva secondo cui la natura non è qualcosa di statico che annulla la libertà dell’uomo, ma è frutto del disegno creatore di Dio. Lo sguardo sulla creazione mette in movimento la creatività umana trovando in essa domande inedite e occasioni di riposo alle inquietudini esistenziali. Il Cantico notturno di un pastore errante di Giacomo Leopardi mostra la verità di una relazione carica di stupore e di angoscia:
«Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?»11
Scrutare la luna è anche guardarsi dentro. La natura genera poesia. Meraviglia delle meraviglie.
2. W. Szymborska, La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009), Adelphi, Milano 2012, 733.
3. R. Guardini, Etica, Morcelliana, Brescia 2021, 769.
6. Cfr M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, BUR, Milano 2016.
8. R. Guardini, Etica, 761.
9. Cfr M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003.