
Tutto diviene chiaro alla luce dell’oscurità: ciò che la palpebra del nostro occhio sembra celare, non è che il riflesso luminoso che lega il sentire di un uomo al sentire dell’umanità. Questo è forse l’aspetto più reale della misericordia ed insieme il motore che innesca il gesto artistico.
È difficile attribuire alla coniugazione di queste due unità diverse e convergenti una definizione incisiva.
La percezione si presenta in forma palindroma; il carattere misericordioso dell’arte e il carattere artistico della misericordia non si fondono però in un concetto astratto, ma in una fecondità di azione che lega la nostra opera alle emozioni e al dolore di tutti.
Anche se non appare nessuna posizione teologica o filosofica nella genesi del lavoro di un artista, è percepibile la presenza di un motore immoto, che impone la consapevolezza all’esistenza di qualcosa che lega il dolore e lo sconforto universali, spesso accomunanti più di qualsiasi altra realtà.
Rappresentare la misericordia per un pittore è come dar vita a una componente primaria del proprio lavoro.
Nella Grande palpebra, trittico del 2009, i pigmenti elargiscono luce, per poi addensarsi in materia, scomporsi in corpi che a loro volta si frazionano in presenze siderali, caricandosi di significati cosmici, in una prospettiva che non si esaurisce, ma tende al non-finito. Si ritorna con moto ciclico sotto-palpebra, al chiuso che apre al tutto della nostra intimità, dove si cerca di dipanare i grumi che hanno accartocciato i bagliori dell’Entità consolatrice e le riflessioni che le sono dovute.
All’artista non è chiesto di operare solo con la forma, non è permesso di ignorare l’invisibile, poiché arte e misericordia possono essere cariche di conseguenze impreviste, ma sempre elargiscono risultati così consolanti da non essere quantificabili. Sono entità che non permettono al dolore di essere solo un abisso panico, ma una sofferenza accomunante e per questo superabile; in tutto ciò quasi niente è pensato, ma tutto deve essere sentito.

Sotto alla palpebra agisce un impulso vincolante per il quale l’artista pretende di non essere un estraneo, conscio che il suo lavoro consiste anche nell’alzare il velame della palpebra e liberare alla luce il proprio dono per chi potrà sentirsi con il cuore meno misero una volta elargito un bene che ora appartiene anche a lui. L’opera non è più solo rappresentazione, ma si arricchisce della dignità e della potenza del dono. È una posizione che accomuna alla Deità quando viene data come una grazia: il concetto di arte, che mai viene menzionato nelle scritture, trova la sua connotazione metafisica quando si propone con l’aspetto della misericordia insita nel dono.
L’artista non potrebbe mai autoassolversi dalla colpa di negare una visione corale della propria opera: significherebbe defilarsi dalla responsabilità che tutti abbiamo nei confronti di chi soffre, e ciò è l’antitesi dell’arte.
L’arte è misericordiosa perché ci aiuta a sopravvivere a dolori spesso indicibili ed a mantenere, nonostante questi, la nostra umanità; la misericordia è lo strumento che ci permette, se non di fermare le ingiustizie, almeno di difendere gli oppressi. L’arte possiede il potere che misericordiosamente ci libera da quel senso di paralisi che ci assale nei momenti di sconforto, sottraendosi alla tentazione del giudizio.
L’artista sa bene di possedere l’eredità lasciatagli da chi lo ha preceduto, e che il possesso di questo lascito inestimabile è stato possibile solo per la misericordia di chi dà, sapendo di avere a sua volta ricevuto. Questo è l’aspetto dell’eredità che permette di percepire l’uomo come umanità e chi ci sta davanti non come diversità, ma come appartenenza, con il coraggio di potere frequentemente sostituire l’ “io” con il “noi”, misconoscendo l’inferiore e il superiore.
Ciò che ci è stato donato, come la misericordia, ci appartiene: si deposita dentro, sotto-palpebra; non lo si può ignorare per eliminarlo, e non è possibile rispedirlo al mittente: abbiamo l’obbligo di usare questo dono, che si accomuna alla luce, che non si vede ma ci permette di vedere, spesso, servendosi dell’arte.
